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giovedì 30 luglio 2020

Gesù e i suoi fratelli

Gesù e i suoi Fratelli

C'è un'interregativo che molti padri della chiesa, studiosi e fedeli si sono posti fin dai primordi della cristianità, un interrogativo che riguarda la famiglia di Gesù e se questi avesse, oppure no, dei fratelli. Come è noto Giuseppe era il marito di Maria e Gesù era, per la Legge, il suo legittimo figlio, ma molti ignorano che Giuseppe aveva altri figli, i quali erano, pertanto fratelli (o fratellastri) di Gesù. Dell'esistenza di detti fratelli vi sia traccia anche nei Vangeli "canonici" (cioè accettati come "regola dottrinale" dalle varie Chiese Cristiane) quali Marco (6.3,4) e Matteo (13.55.56) dove è scritto: "Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioseto, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non sono qui fra noi?". Tale frase, apparentemente chiara, è stata confutata dalla Chiesa Cattolicama anche da Chiese che sono nate da scismi della stessa come quella Evangelica Luterana e quella Anglicana, dove si è sempre cercato di negare quanto scritto nei vangeli, evidentemente al fine di non mettere in dubbio la verginità perpetua di Maria, e il termine fratelli è stato interpretato come cugini, se non genericamente come parenti. Queste opinioni date come dogma di Fede ben le conosco, avendo frequentato la Chiesa Cattolica per anni sia come chierichetto, confratello della Misericordia, dirigente della locale Opera dei Ritiri di Perseveranza e studente dai Fratelli Maristi, ma in me è stato sempre forte il desiderio di conoscere e di sapere oltre le circonferenze dei canoni prestabiliti. Ed è questa curiosità innata che ha fatto sì che mi domandassi perché l'Ortodossia, che pure si richiama alla Retta Fede ed alla fede della cristianità indivisa del primo millennio, mostrasse aperture diverse tanto che se si ammirano i mosaici della Chiesa di San Salvatore in Chora, a Costantinopoli si nota chiaramente la presenza dei fratelli di GesùAnche per dei Padri della Chiesa primitiva quali San Clemente e San Cirillo di AlessandriaOrigene, Sant'Eusebio di CesareaSan Gregorio di Nissa,Epifanio, ed altri ancora, diversi dei quali considerati Santi anche dalla Chiesa di Roma, hanno sostenuto che Giuseppe, prima di sposare la Vergine Maria era un vedovo con dei figli avuti da un precedente matrimonio. Quale è dunque la verità? Nella Storia di Giuseppe il Falegname (SGF)uno scritto apocrifo dei primi secoli pervenutoci in un dialetto copto del basso Egitto denominato boarico troviamo scritto: "C'era un uomo chiamato Giuseppe, che era di Betlemme, la città dei Giudei, che è la città di Re David. Egli era ben istruito nella saggezza e nell'arte della falegnameria. Quest'uomo, Giuseppe, si unì con un santo matrimonio ad una donna che gli diede figli e figlie: quattro maschi e due femmine; e i loro nomi erano: Giuda e Joseto, Giacomo e Simeone, e i nomi delle figlie erano: Lisia e Lidia. Morì la moglie di Giuseppe, come è decretato per tutti gli uomini, e lasciò Giacomo ancora in tenera età. Giuseppe era un Giusto, che glorificava Dio in tutte le sue opere: Era solito andare fuori del paese ed esercitare il suo mestiere di falegname, egli insieme a due sui figli, poiché viveva del lavoro delle sue mani, secondo la legge di Mosè." Queste parole, secondo detto scritto apocrifo, che non significa erroneo ma contenente dottrine nascoste (dal greco apochryphos segreto)sono state raccontate ai discepoli direttamente da Gesù. Secondo il proto-vangelo di Giacomo (8.3) e la Storia di Giuseppe il Falegname, mentre Giuseppe era in vedovanza e la Vergine Maria aveva 12 anni, i sacerdoti del Tempio convocarono dodici vedovi della tribù di Giuda discendenti di Re David al fine di trovare "un uomo di bontà per prometterla a lui sposa finché venga il tempo del matrimonio" (SGF 3.2). La sorte cadde sopra "il buon vecchio Giuseppe, mio padre secondo la carne" come, secondo l'autore della Storia di Giuseppe Il Falegname lo definì Gesù (SGF IV.2). Per il Vangelo dello pseudo Matteo Giuseppe non voleva prendere Maria tanto che disse: "Io sono vecchio e ho figli; perché dunque consegnate a me questa bambina? ... Io non disprezzo la volontà di Dio; ma sarò custode di Maria fino a che si potrà conoscere quale è la volontà di Dio a questo riguardo: cioè quale dei miei figli potrà averla in moglie." (VpM VIII.4) a significare che almeno i figli maggiori di Giuseppe: Giuda e Joseto, avevano un'età maggiore di Maria. Anche per il ProtoVangelo di Giacomo (per gli storici scritto in periodo analogo se non prima di alcuni Vangeli canonici) quando Giuseppe fu prescelto (Pv.G IX.1) "si schernì, dicendo: - Ho già figli, e sono vecchio, mentre esse è una fanciulla! Che io non abbia a diventare oggetto di scherno per i figli di Israele!" (Pv.G IX.2), ma poi accettò quando e prese con se Maria "in casa sua. Ella vi trovò il piccolo Giacomo nella tristezza di orfano e si diede a vezzeggiarlo. E' per questo motivo che fu chiamata Maria madre di Giacomo" (SGF IV.4). Della presenza dei fratelli e sorelle di Gesù vi sono altresì varie informazioni nei vangeli canonici. In Giovanni (2: 11-12), vediamo che dopo il miracolo di Cana, Gesù si reca a Cafarnao, insieme a sua Madre, i suoi fratelli e i suoi discepoli. Gli evangelisti Marco (3.31-34), Matteo (12.46-50) e Luca (8.19-21) ci narrano dell'episodio di Gesù che "mentre egli parlava ancora alle folle" venne cercato da sua madre e dai suoi fratelli: «Ecco, tua madre e i tuoi fratelli sono là fuori e cercano per parlarti»Anche l'evangelista Giovanni, che ne parla in occasione della festa dei tabernacoli (7.3-10) ci racconta (2.12) infatti che: "egli discese a Capernaum con sua madre, i suoi fratelli e i suoi discepoli; ed essi rimasero lì pochi giorni." a significare che non soltanto la madre, ma anche i fratelli di Gesù, ne condividevano l'opera di evangelizzazione. A parte Giacomo il Giusto, che per motivi di sangue ed espressa volontà di Gesù fu il primo capo della cristianità (e non Simon Pietro come erroneamente sostiene la Chiesa Cattolica), le notizie dei fratelli e delle sorelle di Gesù sono assai scarni. Si sa soltanto che dopo l'esilio egiziano, quando Giuseppe ritornò in Galilea nella città di Nazareth i figli maggiori Joseto e Simone, nonché le figlie Lisia e Lidia si erano sposati e vivevano a casa loro (SGF11.1) mentre il fratellastro più piccolo Giacomo rimase in casa con Gesù, Giuseppe e Maria. Non si parla di Giuda, ma probabilmente era il fratello più grande e si era sposato prima della nascita di Gesù. Di Joseto ci parlano il Vangelo Armeno dell'infanzia di Gesù (VIII.1 e 7) che ci racconta che fu portato da Giuseppe a Betlemme per il censimento ed era presente alla nascita di Gesù. Di Lisia, che fu chiamata, insieme agli altri fratelli, al capezzale di Giuseppe moribondo da Gesù (SGF XX.5,6). Ma soprattutto dei fratelli di Gesù si parla dopo la morte e la risurrezione di Nostro Signore. Ne parla l'evangelista Giovanni (20,17-18) riferendosi a Gesù che, dopo la risurrezione, disse a Maria Maddalena «Non toccarmi, perché non sono ancora salito al Padre mio; ma va' dai miei fratelli e di' loro che io salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro» e soprattutto negli Atti degli Apostoli quando si narra come "Tutti costoro perseveravano con una sola mente." (1.14). Dopo la morte di Gesù divenne preminente determinare chi fosse il capo della comunità cristiana e la scelta cadde su Giacomo il Giusto, fratello di Gesù - al quale Gesù apparve, dopo la Resurrezione, prima degli Apostoli (1 Corinti 15:7) -  che fu il primo vescovo di Gerusalemme e di tutta la cristianità. A Giacomo venivano riferiti i fatti salienti della nascente comunità cristiana (Atti 12.17), ne parla San Paolo di Tarso (Atti 21,18) "Il giorno seguente Paolo si recò con noi da Giacomo, e tutti gli anziani erano presenti." ed era quello che prendeva la parola definitiva (Atti 15,13) "Quando essi tacquero, Giacomo prese la parola e disse: «Fratelli, ascoltatemi." Da San Paolo sappiamo che come capo della cristianità primitiva diresse il Concilio di Gerusalemme, Galati (1,19): "E non vidi alcun altro degli apostoli, se non Giacomo, il fratello del Signore." dove si desise che Pietro era l'Apostolio dei circoncisi (ebrei) e Paolo e Barnaba dei gentili (pagani). In detto Concilio (il primo della Cristianità), sempre San Paolo di Tarso nella lettera ai Corinzi (1 9,5) ricorda come gli apostoli chiedesssero di portare nell'opera di evangelizzazione anche la relativa "moglie, che sia una sorella in fede, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore". Di Giacomo il Giusto, fratello di Gesù ne parla anche Flavio Giuseppe, uno storico ebreo naturalizzato romano del I secolo, che nel libro Antichità giudaiche (XX.cap.9) parlando delle persecuzioni che i primi cristiani subivano per mano delle autorità giudaiche scrive: "Anano [...] convocò i giudici del Sinedrio e introdusse davanti a loro un uomo di nome Giacomo, fratello di Gesù, che era soprannominato Cristo, e certi altri, con l'accusa di avere trasgredito la Legge, e li consegnò perché fossero lapidati". Che Giacomo il Giusto fosse il successore di Gesù a capo della nascente religione cristiana ce ne parla non soltanto Gerolamo, che nel De Viriribus Illustribus (2) – parla di un episodio tratto dal Vangelo secondo gli Ebrei dove si racconta che dopo la resurrezione Gesù apparve a Giacomo e ... "Prese il pane, lo benedisse,lo spezzò, ne diede a Giacomo il Giusto, e gli disse: - Fratello mio, mangia il tuo pane, perché il Figlio dell'uomo è risorto dai dormienti" ma espressamente anche il Vangelo di Tommaso (13), un vangelo che da un secolo a questa parte ha sempre maggiori estimatori, comil Papa Emerito Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), che ci racconta che quando "I discepoli dissero a Gesù: - Sappiamo che ci lascerai: chi è che ci guiderà? - Gesù rispose loro: - Dovunque andrete seguirte Giacomo il Giusto...". Per quanto gli argomenti esposti possono sembrare strani, se non blasfemi, in quanto vanno a cozzare con secoli di propaganda o disinformazione cattolica che ha inculcato nel comune sentire verità diverse, pur tuttavia è bene avere conoscenza anche delle altre verità alternative fin qui negate. Mi auguro che questo articolo, che non vuol essere un dogma di Fede ma unicamente una fonte di riflessione e conoscenza, non sia stato noioso ma, al contrario abbia suscitato in voi della curiosità che potrete approfondire leggendo trattati più eruditi ed esaustivi del mio. 
San Giacomo il Giusto, fratello del Signore
Concludo rammentando come anche nei primi cristiani vigeva quella mentalità, tipicamente semita, per la quale la guida di una comunità religiosa fosse affidata ai parenti del fondatore (vedi la plurisecolare diatriba che divide l'Islam tra sunniti e sciiti, questi ultimi sostenitori della successione parentale del Califfato ad Ali nipote e genero di Maometto, in quanto ne aveva sposato la figlia Fatima) e perché la scelta di guidare la prima comunità cristiana sia caduta su Giacomo il Giusto fratello di Gesù e che a succedergli sia stato chiamato il cugino Giuseppe, figlio di Cleofa, fratello di Giuseppe. D'altra parte, come ci raccontano lo scrittore romano Sesto Giulio Africano ed altri autori paleocristiani ancora nel terzo secolo erano tenuti in posizione di speciale prestigio i desposini o appartenenti alla famiglia del Signore (parenti).

dott. prof. mons. Filippo Ortenzi
Arcivescovo Metropolita della Chiesa Ortodossa Italiana e Magnifico Rettore dell'Università Ortodossa San Giovanni Crisostomo

sabato 4 luglio 2020

Comitato per la Glorificazione di Ugo Bassi (sacerdote, patriota, garibaldino)

Comitato per la Glorificazione di

Ugo Bassi (sacerdote, patriota, garibaldino)
Ugo Bassi
Dal sito del Comune di Cento (Ferrara)

Ugo Bassi (1801 – 1849
In una tranquilla strada di Cento ancora esiste la modesta casa in cui, il 12 agosto 1801, vide la luce Giuseppe (Ugo) Bassi. Tanto gracile era quella creaturina che, temendo per la sua vita, i genitori la fecero immediatamente battezzare. Due anni dopo la famigliola si trasferì a Bologna. Il padre, Sante Luigi, era impiegato della dogana pontificia; la madre, Felicita Rossetti, una cameriera originaria di S. Felice. Da lei il piccolo ereditò un temperamento energico e affettuoso insieme. L'infanzia e l'adolescenza di Ugo Bassi coincisero con il periodo dell'occupazione napoleonica. La sua anima sensibilissima tanto si infiammò alle idee di libertà e di servizio alla patria che, nell'aprile 1815, chiese di essere arruolato nell'esercito di Gioacchino Murat. Per l'acerba età e l'esilità della persona non venne nemmeno preso in considerazione. A questa cocente delusione si aggiunse poco dopo il profondo dolore per la morte di una ragazzina, Annetta Bentivoglio, di cui si era innamorato con tutta la capacità di dedizione che era e rimase la caratteristica più profonda della sua personalità. Nel 1816, con l'aiuto economico di un sacerdote bolognese, entrò nel Collegio di S. Lucia, retto dai Barnabiti, un collegio aristocratico, con insegnanti di valore che gli diedero un'istruzione classica severa e profonda. La sua intelligenza vivacissima e l'estrosità del carattere lo distinsero presto dai compagni, fra i quali trovò amici generosi e leali, che gli furono vicini per tutta la vita, come il conte Livio Zambeccari e poi Paolo Venturini, Alessandro Ramenghi e Alessandro Gavazzi che diventeranno Barnabiti. In questo ambiente maturò la vocazione religiosa del Bassi, una vocazione vera, sincera, profonda, a cui non venne mai meno.
Stemma Comune di Cento (FE)

 Nonostante l'opposizione paterna, egli vestì perciò l'abita di Barnabita e nel 1821 pronunciò i voti a Roma, nella chiesa di S. Carlo. Lo studio indefesso aveva indebolito la sua salute, che era sempre stata delicata; molto frequentemente era colto da malori, perciò i superiori lo destinarono, come insegnante, al Collegio di Pontecorvo e poi a quello di Caravaggio a Napoli, nella speranza che il buon clima di quella città gli giovasse. Certo egli là non conobbe riposo. Il suo desiderio di imparare non aveva limiti: leggeva e discuteva di tutto, sorretto da una memoria prodigiosa; rapito dall'amore per la musica arrivò a suonare magistralmente il cembalo e inoltre la chitarra e il violino; disegnava e dipingeva. Ma soprattutto si sentiva spinto ad avvicinare continuamente ogni genere di persone, e tutti riusciva a conquistare con la signorilità dei modi, la piacevolezza del conversare, la larghezza di idee, la generosità. E chiaro che per un giovane di tal genere l'insegnamento, sia pure in un importante collegio, non rappresentava un tipo di vita del tutto soddisfacente, e poiché l'ordine barnabitico gli offriva un'altra attività - la predicazione - ecco che il Bassi cominciò ad interessarsene. Dal 1825 al 1833 ebbe sempre più numerose possibilità di parlare in pubblico, entusiasmando i giovani, ma destando perplessità negli anziani per lo sfoggio continuo della cultura profana, e per l'esuberanza delle immagini e della fantasia. Ad Alessandria, nel Collegio di S. Alessandro dove sarà chiamato a vivere per alcuni anni, si troverà malissimo. Insieme al più giovane e ritrovato amico bolognese Alessandro Gavazzi, spirito irrequieto e intraprendente, incorrerà più volte nel biasimo dei superiori, ma finalmente, dal 1833, la sua carriera oratoria diventa rapida e sfolgorante. Nel 1834 è acclamato dall'esigente pubblico che affolla la chiesa torinese di S. Carlo. L'anno dopo realizza il suo sogno più vivo: è chiamato a predicare la quaresima in S. Petronio a Bologna. Fra un crescendo di approvazioni e di ascoltatori tenne ben trentacinque prediche. Gli ammiratori giunsero a litografare un suo ritratto, ma la maggior parte del clero lo criticò aspramente, e il cardinale Spinola lo denunciò al segretario di stato cardinale Benetti, per alcune sue espressioni ritenute offensive nei riguardi del governo papale. A quaresima finita, per chiarire le cose, il Bassi si recò immediatamente a Roma. Il pontefice Gregorio XVI, ricevutolo in udienza, ne accettò le giustificazioni e con paterno atteggiamento si limitò a consigliargli di "predicare più ponderatamente". Come predicava Ugo Bassi? Egli era solito comporre e poi mandare a memoria i suoi discorsi, che non duravano mai meno di due ore, ma poi, nella foga del momento, in presenza dell'uditorio, si lasciava andare ad improvvisazioni, stordiva con un profluvio di citazioni, nomi e date, aveva folgorazioni cui non sapeva resistere, con scapito, qualche volta, della struttura della predica, che risultava così più entusiasmante ma anche meno organica. Il linguaggio era ricercato, fortemente acceso, ricco di parole trecentesche, anche in disuso. Le immagini si accavallavano, ma non potevano smorzare i toni polemici e la novità degli argomenti: all'evangelizzazione più ortodossa egli affiancava la denuncia aperta, inequivocabile, dei mali della società contemporanea, la difesa dei diritti degli oppressi e degli umili, una difesa tanto vibrante da apparire provocatoria ai moderati e ai conservatori e soprattutto a chi deteneva il potere. Provocatorio era anche l'atteggiamento dell'oratore, che non esitava a ricorrere a mezzi teatrali pur di impressionare l'uditorio: ogni inflessione della voce calda e sonora era sfruttata, ogni gesto delle mani, ogni movimento del corpo, ogni espressione del viso e soprattutto il volgere degli occhi neri e scintillanti sottolineavano, ingigantivano, imprimevano le frasi più infuocate. Va da sè che una tale oratoria, se piaceva ai giovani e ai liberali, incontrava il disappunto più vivo di gran parte del clero e provocava tali polemiche che ben presto il nome del nostro Barnabita fu noto dappertutto. Nel 1836 è a Cesena per il quaresimale, riuscitissimo. Prima di lasciare la città è invitato dal vescovo Cadolini ad una "accademia poetica" nel suo palazzo, il che permette al Bassi di far conoscere l'aspetto cordiale del suo carattere, con poesie estemporanee assai applaudite. Anche il 1837 è un anno di trionfi. Nell'insigne chiesa palermitana detta dell'Olivella, autorità e pubblico ascoltano con entusiasmo il suo quaresimale; le più nobili famiglie della città gareggiano nell'ospitarlo, ma più che questa parentesi mondana a noi piace ricordare lo slancio generoso che ricondusse il Bassi a Palermo nell'estate di quello stesso anno, in soccorso degli ammalati di colera. Un quinto dei Palermitani morì. Ugo Bassi si prodigò nell'ospedale di S. Domenico e in case private, senza risparmio.
Castello di Cento, città natale di Ugo Bassi

Il 23 aprile, giorno di Pasqua, i volontari pontifici entrano in Bologna entusiasticamente accolti. Dal fronte giungono notizie esaltanti: le vittorie dell'esercito sardo a Goito, Valeggio, Monzambano, costringono al silenzio gli oppositori della lotta per l'indipendenza italiana. Davanti alla chiesa di S. Petronio viene eretta un'alta tribuna. Per una settimana Alessandro Gavazzi e Ugo Bassi vi si alternano per arringare la folla e sollecitare offerte di denaro e di quant'altro è necessario per le truppe. Ugo Bassi tenne il suo primo discorso il 25 aprile. Nella sua bruna e lunga capigliatura già compariva qualche filo d'argento, ma la voce era ancora quella potente e suggestiva della giovinezza. Non fu grande - si legge su "La Gazzetta di Bologna" - ma mirabile, ma portentoso, ma superiore ad ogni possibilità di credere ed appena aggiungibile al vero pei testimoni di veduta che per ventura furono infiniti. Chi ieri non fu commosso, non ha cuore in petto, o l'ha di bronzo". E padre Paolo Venturini scriverà al Generale dell'Ordine, padre Caccia: "(Bassi) domandò offerte per l'armata; un solo pendente alle donne;' e fu pieno il palco di orecchini, monili, che egli accoglieva baciandoli; quindi denaro e si raccolsero in un momento seicento scudi; poi l'offerta durò dalle tre fino alle sette, correndo il popolo a portar vesti, cappotti, armi, camicie, quanto aveva. Si videro poveri cavarsi la camicia e il corpetto sulla piazza, vuotarsi le tasche dai pochi soldi. Insomma un fremito, un trionfo, d'un genere tutto nuovo e non mai più visto. Il Bassi finita la predica, montò in carrozza: il popolo staccò i cavalli lo condusse dal Legato e trascinò la carrozza sulla prima scala che è tutta cordonato; ma forse la fatica, la commozione, o la scossa del legno, egli venne a meno e dovettero ricondurlo a casa". Nei giorni successivi il Barnabita si impegnò in una appassionata opera di pacificazione fra i Bolognesi, poiché erano accadute manifestazioni di intolleranza nei riguardi di illustri cittadini ritenuti ostili, fra i quali Gioacchino Rossini. Il musicista "inviso ai liberali pel vituperevole contegno che tenne verso gli immigrati italiani fin dal 1831 a Parigi" (Bottrigari), con la moglie aveva lasciato immediatamente la città. Ugo Bassi, amareggiato dal fatto, il 29 aprile << ... sull'imbrunire ... chiamò nella piazza maggiore e invitò il popolo a seguirlo- fino al palazzo Donzelli, Ivi, fra due torce accese, comparve al balcone dove era stato ingiuriato Rossini, si dié, come da Pergamo, a riprendere coloro, che, arrogandosi il nome di patrioti, scambiano la libertà in licenza .... " . Rossini, informato di ciò, scrisse una cortese lettera di ringraziamento ad Ugo Bassi, ma rimase a Firenze. Il giorno 30 Ugo Bassi è a Cento, e parla per due ore in piazza, è poi festosamente acclamato il giorno dopo a Pieve di Cento. Si reca a Lugo e Faenza, infine ritorna a Bologna. Qui trova una sconvolgente notizia giunta da Roma: nel concistoro segreto del 29 aprile Pio IX ha nettamente disgiunto le responsabilità della chiesa dalla causa dell'indipendenza italiana. Il cardinale legato Luigi Amat, preoccupatissimo per le conseguenze che tale nuovo e inatteso atteggiamento papale può avere sull'ordine pubblico, convoca Ugo Bassi e gli chiede di adoperarsi quanto più può come pacificatore. Egli con sollecitudine parla in S. Petronio affermando che il Pontefíce non può aver mutato animo, ma ha dovuto cedere alle pressioni di chi gli sta intorno: bisogna attendere con fiducia l'evolversi della situazione. Ma lo stesso frate sente franare qualcosa in sé, sente che non può più arringare la folla con l'animo sereno e con quella sicurezza che tutti scuoteva, e poiché il suo reggimento è già nel Veneto, parte a cavallo con l'antico Gavazzi, per raggiungerlo. Il giorno 8 maggio è a Venezia e si presenta a Daniele Manin. Fra i due fiorì subito un'intesa cordiale che si trasformò presto in profonda amicizia. Il giorno successivo parlò in piazza S. Marco, insieme all'avvocato Dionigi Zannini; notevole fu la raccolta di denaro, armi e indumenti Finalmente raggiunse il suo reggimento a Treviso, mentre la città stava per essere evacuata dal generale Ferrari, costretto a ripiegare su Mestre. A difesa di Treviso rimasero solo poche unità militari, tra cui il reggimento di Ugo Bassi. Il giorno 12 gli Austriaci sferrarono contro la città un assalto che fu respinto. Ugo Bassi, disarmato, si trovò per la prima volta in una battaglia e lo si vide, impavido, dove maggiore era il pericolo a incoraggiare i combattenti. Nel pomeriggio poi accompagnò in una temeraria sortita il generale bolognese marchese Alessandro Guidotti, che cadde colpito a morte. Anche il Bassi, che gli era accanto, rimase ferito ad una mano, a un braccio e al petto. Subito soccorso e curato, si mostrò orgoglioso di essere stato accomunato nella sofferenza a tanti eroici compagni d'arme. Del fatto informò subito padre Caccia, con l'entusiasmo di chi è sicuro di agire per il meglio, ma il suo superiore, preoccupato per il buon nome dell'Ordine aveva preso intanto una gravissima decisione, inoltrando al Pontefice un memoriale in cui, constatato che ormai padre Bassi "vive fuori del rispettivo suo chiostro" e che era evidente "la non leggera difficoltà che dallo stesso individuo si incontrerebbe qualora avesse di bel nuovo da assogettarsi alle pratiche della regolare osservanza" chiedeva che venisse passato dall'Ordine dei Barnabiti allo stato di sacerdote secolare. Ignaro di tutto questo, il Bassi, poiché le ferite non sembrano preoccupanti, continua a vivere tra i soldati, a interessarsi dei loro problemi, a eccitarne lo spirito combattivo. Quando anche i soldati pontifici devono lasciare Treviso, Ugo Bassi porta il contributo della sua azione alla difesa di Venezia. Ma la ferita al petto lo fa soffrire indicibilmente. Un chirurgo veneziano si rende conto che il proiettile è rimasto incastrato fra le costole. L'intervento per estrarlo è difficile e doloroso, ed è seguito da una infezione che dura più di un mese.  Ai primi di luglio egli pubblica una raccolta di versi patriottici. L'illusione politica su Pio IX è ormai svanita, neppure di Carlo Alberto di Savoia si fida, e se l'imperativo del momento gli appare uno solo: la guerra allo straniero, nel futuro dell'Italia egli comincia a intravedere una repubblica, in cui uomini come Daniele Manin si pongano a guida di un popolo ricondotto ad una religione più salda e incorrotta. All'inizio di agosto, ormai guarito, è fra i soldati di forte Marghera. A Roma, intanto, il 21 luglio Padre Caccia ha ottenuto dal Papa il rescritto di secolarizzazione per Ugo Bassi, ma non sa in quale modo renderlo esecutivo. Infine (il 15 agosto) decide di inviarlo al cardinale di Bologna Oppizzoni, da cui il sacerdote dovrà d'ora in poi dipendere. Il cardinale conosce, e benissimo, tutte le vicende in cui è stato coinvolto Ugo Bassi, ma non esita a prendere una decisione contraria a quella che padre Caccia si aspetta, cioè trattiene presso i sé il rescritto senza minimamente informarne l'interessato. E sì che una occasione di valersene gli si presenta quando, poche settimane dopo, il patriarca di Venezia, Jacopo Monico, gli chiede con urgenza notizie su quel Barnabita così scomodo e ormai popolare in Venezia: l'Oppizzoni gli risponde con frasi evasive. E' lo stesso Bassi a presentare un memoriale alla curia veneziana, per esporre le proprie idee e precisare i compiti cui attende, ma proprio la chiusa di tale memoriale irrita profondamente il patriarca: "In ultimo e' bacia le venerande mani a S.E. il sig. Patriarca, pronto a ubbidire in tutto poiché chi è vero italiano come il P.Gavazzi ed altri, è di certo buono e giusto e  che non tocchi l'onore di vero Italiano, (il che non crede verrà mai da S. Em.); e chi non ama l'Italia e l'indipendenza italiana, insomma chi non è vero italiano, non è né può essere buon ecclesiastico; ma un infame e un traditore". Per arrivare a colpire il Bassi, inattaccabile nella vita privata, il Patriarca chiede allora al generale Ferrari di porre tutti i cappellani pontifici alle dipendenze della curia veneziana; e successivamente attacca violentemente il Barnabita per le sue idee e la sua azione politica. L'accusato risponde subito con un discorso in piazza S. Marco ed un lungo documento (pubblicato il 25 ottobre) pieno di vibranti proteste e critiche al patriarca. Indignatissimo di tanta audacia, il cardinale Monico scrive lo stesso giorno al generale Ferrari perché riprenda come si merita il frate, ma non è ascoltato, perché il 27 ottobre nel vittorioso assalto a Mestre Ugo Bassi è l'unico dei cappellani militari che fa il proprio dovere. Leggiamo in un articolo del giornale l'"lndipendente" che egli "...con in mano una piccola bandiera improvvisata da lui, primo di tutti e facendo coraggio ai soldati si scagliò in mezzo la via contro la penultima casa che fu levata agli Austriaci; e quindi coi lombardi corse e scavalcò il muro di casa Bianchini, aiutò a forzare le porte barricate ed entrò nella casa dove diede assistenza spirituale non solo ai nostri ma eziandio ai nemici morenti". Per tutto il mese di novembre continuò la sua difficile opera di religioso nei forti e negli ospedali. Fuggito il papa a Gaeta, tutte le truppe pontificie ricevettero l'ordine di rimpatriare. Fu con grande dolore che Ugo Bassi si staccò dall'amico Daniele Manin che non doveva più rivedere. Le truppe del generale Ferrari furono accolte festosamente a Ravenna.Qui fra gran folla, il Bassi parlò sulla tomba di Dante, di notte,al lume di fiaccola, contro i traditori della causa italiana. Con il permesso del generale si recò poi a Bologna, dove giunse il 15 dicembre mutato dalle esperienze militari dalle delusioni, ormai convinto della necessità di por fine al potere del papa e infiammato alle idee repubblicane nutrite dall'ammirazione per Manin e con tuttavia ancor qualche stima personale per Pio IX, considerato succube dell'ambiente di Gaeta, impedito di manifestare liberamente se stesso. Vive fra gli uomini del battaglione dell'amico Livio Zambeccari, frequenta il circolo popolare fondato dal Gavazzi, organizza riunioni, pubblica opuscoli e manifesti, pronuncia pubblici discorsi anche in vari paesi della diocesi (fra cui Cento) per caldeggiare la ripresa della guerra all'Austria e la partecipazione all'elezione dei duecento componenti dell'"assemblea nazionale costituente" di Roma.
Il l° gennaio del 1849 Pio IX in una enciclica diretta ai sudditi, in difesa del proprio potere temporale, dichiara scomunicati tutti coloro che, in qualsiasi modo, si adoperino contro di esso. I circoli popolari aprono liste di arruolamento di militi in difesa del nuovo governo romano e Ugo Bassi prende immediatamente posizione pubblicando un opuscolo "Della scomunica e più altre cose de' tempi nostri" che desta un vasto interesse. L'enciclica papale ha gettato il più profondo turbamento nel clero, negli ambienti militari e nella amministrazione, e in tutti gli strati della popolazione. Per rispondere agli interrogativi che angosciano tante coscienze, appassionatamente - e poco realisticamente - Ugo Bassi si ostina a sostenere che il Papa del 1846 e '47 non può aver mutato animo e che il decreto di scomunica gli è stato estorto dai retrivi che lo circondano; gli sembra assurdo che si possa insistere su questa via: "...scomunicare un popolo vorrebbe dire seminarvi l'anarchia e la guerra civile".Egli crede che la costituente romana "richiamerà il Papa, ma a condizione solenne di gridare la guerra all'austriaco e liberare la Lombardia e Venezia". Se il Papa non accetterà, si andrà con Cristo: "Egli ha detto: il mio reame non è di questo mondo... Egli ha detto non volere, che i suoi discepoli facciano a modo dei re e dei tiranni ... hanno detto che noi dobbiamo amare i fratelli oppressi e afflitti meglio del padre e della madre, non che meglio del principe qual si sia... Noi per la redenzione de' veneti e de' lombardi daremo la vita nostra... Dio ne benedice: e se Dio ne benedice, qual uomo, qual pontefice...ne può maledire! ... ". Come si vede non si può certo parlare di un vero e proprio pensiero politico del Bassi, ma subito colpisce la sua sincerità, il suo disinteresse, il suo amore per gli oppressi disposto a tutto, la sua ansia di collaborare fattivamente alla unificazione di un paese asservito allo straniero, di vederlo liberamente governato. La reazione dei clericali conservatori non è descrivibile: poesie di scherno e lettere anonime diffamanti circolano in Bologna, ma a suo conforto sta l'appoggio e la stima affettuosa del provinciale dei Barnabiti, padre Paolo Venturini, filologo di grande valore, insegnante aperto e preparato, italianissimo di sentimenti. L'annuncio della proclamazione della Repubblica Romana, giunto a Bologna l'11 febbraio non commosse un gran che la cittadinanza, ma Ugo Bassi preso da acerbo sdegno per l'ambiente che lo circondava, maligno ed inerte per la gran parte, decise di raggiungere le truppe del generale Ferrari, che a Terracina si disponevano a combattere contro il generale Zucchi, rimasto fedele al Papa. La notizia della sua partenza fu accolta con sollievo dal cardinale Oppizzoni, che quotidianamente era subissato di denunce e proteste contro quel frate che non indossava più l'abito barnabitico, ma avendone conservato solo il collare, usava una specie di divisa militare, con calzoni e tunica nera, una croce tricolore cucita sul petto, un Crocefisso infilato nella cintura, e che frequentava locali pubblici con i soldati. Il disporsi a combattere contro le truppe pontificie in difesa della Repubblica Romana, non è, per la coscienza del Bassi, un atto di ribellione: il pontefice è venuto meno - e per sempre - al suo impegno di benedire l'Italia; un cattolico è ormai legato al suo pontefice solo religiosamente arguisce Ugo Bassi , non più politicamente.
Ugo Bassi, postosi al di là di ogni corrente e di ogni partito, sacerdote integerrimo, tutto preso dall'evangelizzazione e che tuttavia combatte senza incertezze contro il Papa, è ormai un personaggio difficile da capire anche per gli stessi amici. Il 4 marzo egli è finalmente a Roma. Qui trova un ambiente eterogeneo, uno scontrarsi di opinioni e speranze, e, per quanto sia bene accolto, diventa insofferente e teso. Gode della sconfitta subita a Novara da Carlo Alberto di Savoia, "giusta punizione dei suoi errori", e pubblica un indirizzo a Pio IX, criticando aspramente la sua decisione di invocare l'intervento straniero: " ... Ma voi vel sapete, o Santo Padre, ... che noi non vi abbiamo cacciato, ma voi n'avete lasciato in abbandono all'anarchia e alla morte: vel sapete che richiamato due o tre volte n'avete avuto onta e dispregio... E poiché gli altri re, quando non fanno il bene del popolo, ma il male, quando abbandonano il governo e lasciano l'anarchia, si cacciano o si depongono, così si può fare di Voi come in altri senza peccare nella vostra Sacrosanta Persona. Cristo solo, o Santo Padre, Cristo solo, Salvatore del mondo, e non re, è tutto divinità: ma chi dice che il Papa è Dio è un pagano. Quindi... chi contraddice alla persona di vicario del Cristo nel Papa, contraddice al Cristo, ma chi alla persona di re nel papa, quando il Papa sacrifica al re i popoli, contraddice all'ingiustizia, all'umanità, al male... ". Dopo un periodo di forzata inattività, finalmente viene nominato cappellano della legione italiana comandata da Giuseppe Garibaldi, che raggiunge a Rieti il 4 aprile. L'eco di questo primo emozionante incontro è in una lettera scritta in quei giorni da Ugo Bassi: "...Garibaldi è l'eroe più degno di poema, che io sperassi in vita mia di vedere. Le nostre anime si sono congiunte come se fossero state sorelle in cielo prima di trovarsi nelle vie della terra". E qualche giorno dopo, da Anagni, confermerà: "...Garibaldi! Questi è l'eroe cui cercando andava l'anima mia. L'Italia è Garibaldi... ". Predica alle popolazioni e ai legionari; per far cosa grata a Garibaldi sveste il nero abito barnabitico e indossa l'uniforme rossa degli ufficiali della legione. Non era facile la vita di un sacerdote in mezzo ai volontari, provenienti da ogni dove rotti a tutte le soperchieria della guerra, intemperanti nel linguaggio, irriguardosi spesso dei diritti dei civili. Bassi ne conquistò l'animo dividendo con loro ogni ora della giornata, l'ozio e le marce, i pericoli e le soddisfazioni. Incurante di sé, sempre pronto a rincuorare gli afflitti, a soccorrere i feriti, a benedire i morenti ad esporsi disarmato dove infuriava la battaglia, sapeva anche far rispettare la parola di Dio, difendere la giustizia. Era "la coscienza morale" della legione. Il 27 aprile i garibaldini giunsero a Roma. Tre giorni dopo Ugo Bassi partecipò al vittorioso combattimento contro i francesi a porta S. Pancrazio, cavalcando tra i volontari. Ebbe ucciso sotto di sè il cavallo e fu catturato dai nemici per non essersi voluto allontanare da un ferito rimasto sul terreno della battaglia. Rilasciato in libertà quasi subito, si distingue per coraggio presso Palestrina, l'8 maggio, in scontri con pattuglie napoletane che tenta addirittura di arringare. L'aggressione francese alla città di Roma è improvvisa. A Villa Corsini il 3 giugno gli Italiani scrivono una fulgida pagina di eroismo: Ugo Bassi si offre più volte come portaordini in posizioni esposte, raccoglie i feriti, conforta i moribondi, sordo ad ogni invito alla prudenza, fedele ad un suo motto: "In ultimo se si dèe cadere si cada da forti; o martirio o vittoria!". Fino alla caduta di Roma andò cercando fatíche e sacrifici: negli ospedali e in prima linea, dovunque ci fosse una sofferenza là era Ugo Bassi e tale era la tranquillità della sua coscienza che nelle brevi ore di riposo attendeva al suo poema "La croce vincitrice" giunto al 33' canto, da cui si aspettava alta gloria poetica. In realtà si tratta di un'opera inorganica, che risente delle emozioni, dei mutamenti d'animo dell'autore. Il giorno 30 i Francesi assalirono le mura di Roma con tutta la potenza della loro artiglieria. Tra i morti, Ugo Bassi ebbe lo strazio di annoverare anche il prode Luciano Manara, di cui era diventato amico carissimo; prima che i Francesi vittoriosi entrassero nella città, egli volle che i funerali del caduto assurgessero a valore di simbolo. Nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina, gremitissima di gente commossa, pronunciò l'elogio funebre, profetizzando per sé prossimo il martirio. La sera partì da Roma con la legione dei volontari garibaldini. Con abilità e fortuna Garibaldi riuscì ad eludere più volte gli inseguitori francesi, toscani e austriaci, benché l'estate torrida, le difficoltà del cammino per contrade inospitali fiaccassero glí uomini. Anche Ugo Bassi, che faceva parte dello stato maggiore, era sfinito e febbricitante, ma si sforzava di essere di esempio agli altri. L'odissea della legione garibaldina durò un mese: attraverso il Lazio, la Toscana e le Marche il 31 luglio i superstiti giunsero ai piedi di S. Marino. Da ogni parte si avvicinavano truppe austriache, erano laceri, affamati, demoralizzati. Ugo Bassi fu mandato come parlamentare al reggente sammarinese Domenico Belzoppi, a chiedere il permesso di passare per il territorio della repubblica e viveri. Il Belzoppi dispose che i viveri richiesti fossero consegnati ai garibaldini, ma al confíne della repubblica, che nessuno doveva violare. Nella notte, però, Garibaldi, vistosi irrimediabilmente circondato, diede ordine ai suoi uomini di entrare nel territorio di S. Marino. Qui giunto li sciolse dall'impegno di seguirlo e si dichiarò disposto alla resa. Mentre fra la reggenza di S. Marino e gli austriaci intercorrevano trattative per la sorte dei legionari, Ugo Bassi assisteva i feriti ospitati nel convento dei Cappuccini. Preso dal presentimento di essere vicino alla prova suprema, chiese di confessarsi. Al sacerdote che gli diede l'assoluzione lasciò il vasetto dell'olio santo avuto da Padre Gavazzi, e un breviario. Intanto il generale austriaco Hahne aveva fatto pervenire un testo con nove punti preliminari circa la resa. Dopo averli vagliati, Garibaldi vi scrisse sotto la seguente risposta: "Le condizioni imposte dagli Austriaci sono inaccettabili, e perciò sgombriamo il territorio". Diede immediatamente l'ordine di partenza a circa 250 uomini, con cui intendeva sgusciare fra le maglie dell'accerchiamento nemico e dirigersi quella notte stessa al mare. Ugo Bassi, immerso nelle strofe del suo poema, le ultime, non si avvide di nulla. Fu Garibaldi che, accortosi della sua assenza, lo mandò a chiamare e sia pure con qualche difficoltà il Barnabita riuscì a raggiungerlo. All'alba dell' agosto il generale Hahne si accorge con somma indignazione di essere stato giocato e mentre cerca di individuare la strada percorsa dai fuggiaschi perde altro tempo prezioso. A Gatteo Ugo Bassi è riconosciuto da un reduce della difesa di Roma che generosamente - quanto inutilmente - gli offre un rifugio sicuro. Con l'aiuto di diversi patrioti romagnoli nella notte fra il l° e il 2 agosto i garibaldini giungono a Cesenatico. Qui sette soldati croati di guardia al porto sono arrestati da Ugo Bassi e da Anita Garibaldi; contemporaneamente si impedisce alla polizia e alle autorità pontificie di mettersi in moto. Il commissario di sanità marittima è costretto a requisire 13 imbarcazioni da pesca e a reperirne gli equipaggi. Alle tre di notte, dopo aver venduto i cavalli e raccolto provviste, i legionari cominciano a imbarcarsi; alle sei salpano, benché una forte marea ostacoli la manovra. Conducono con sé come ostaggi i croati e un brigadiere. Garibaldi vuole che Ugo Bassi salga nella sua stessa barca, dove sono anche Anita e il romano Cíceruacchio con i figli. Due ore dopo il governatore civile e militare delle legazioni, l'inflessibile generale Carlo von Gorzkowski entra in Cesenatico con le sue truppe e vede la piccola flotta ormai al largo. Furente dispone che tutta la costa fino a Venezia sia messa sotto rigoroso controllo e che il porto di Magnavacca sia presidiato da truppe dotate di cannoni: non deve sfuggire quel bandito che ha superato la sua stessa leggenda beffandosi, in quella marcia verso Venezia, di un esercito di migliaia di uomini perfettamente equipaggiati e comandati da esperti generali. La navigazione nella giornata calma e bella andò bene fino al pomeriggio; l'imbarcazione di Garibaldi precedeva le altre, mantenendosi vicino alla costa, dove l'acqua era bassa, ma verso le quattro del pomeriggio, nelle vicinanze di Goro, una goletta e un brick austriaci scorsero la flottiglia e si diressero verso di essa.
Caduta la notte, un meraviglioso chiarore lunare tradì i fuggiaschi: il brick, individuatili, si avvicinò e cominciò a sparare e a lanciare razzi. Varie imbarcazioni si arresero; solo cinque bragozzi, fra cui quello di Garibaldi, approdarono fra Magnavacca e Volano. Gli equipaggi reclutati a Cesenatico, terrorizzati, si abbandonarono alla fuga e anche i volontari si sparsero nelle zone circostanti. Accanto a Garibaldi e ad Anita morente rimangono Ugo Bassi, Giovanni Livraghi e G.B. Culiolo detto Leggero. Ma il gruppo è troppo numeroso, dà nell'occhio, quindi bisogna separarsi: Ugo Bassi e il Livraghi, disarmati, si dirigono verso Comacchio, dove contano di trovare certi conoscenti. Attraverso il bosco Eliseo arrivano a S. Giuseppe e di qui si portano alla Fossa della Fontana, dove ottengono di essere traghettati attraverso le valli da due fruttivendoli che li accompagnano a Comacchio, all'osteria della Lenza. Vi giungono verso le ore 11. Uno dei due fruttivendoli è convinto che l'uomo dalla lunga barba scura e dai calzoni rossi sia Garibaldi e comincia a dirlo in giro. Il nipote dell'ostessa riconosce Ugo Bassi e lo sollecita a partire perché nell'osteria possono entrare austriaci. Anche Livraghi insiste per andarsene, ma il Bassi non ne vuol sapere: è un prete, non ha fatto del male, è disarmato, perché dovrebbe fuggire? Altri patrioti corrono nell'osteria della Lenza per aiutare i due a nascondersi, ma ancora Ugo Bassi rifiuta; accetta solo di trasferirsi all'osteria della Luna per consumare un frugale pasto. Ormai però la gendarmeria pontificia è stata informata della presenza dei fuggiaschi: verso le undici e quarantacinque quattro carabinieri entrano nell'osteria della Luna per arrestarli. Nessuna resistenza è opposta dai due, che sono subito consegnati al comandante austriaco e chiusi in cella. Il Livraghi è perquisito e trovato disarmato, il Bassi è privato della borsa di cuoio che contiene solo oggetti d'uso personale e il manoscritto de "La croce vincitrice". Il vicario generale di Comacchio, mons. Domenico Feletti, informato dell'accaduto, si presenta con sollecitudine al comando austriaco e, in nome della curia, chiede il rilascio del Barnabita, protetto dal diritto canonico, ma l'ufficiale comandante risponde che in proposito deve chiedere istruzioni al generale Gorzkowski che, in qualità di governatore di Bologna con pieni poteri, ha completamente esautorato l'autorità pontificia. In particolare ha istituito due tribunali, lo statario e il consiglio di stato: il primo, sotto il quale ricadono tutti i reati politici "non conosce altra pena che la morte". Il 5 agosto, ricordando le precedenti disposizioni, il governatore pubblica un'ennesima notificazione in cui chiarisce che "sarà assoggettato al giudizio statario militare chiunque, scientemente, avesse aiutato, ricoverato o favorito il profugo Garibaldi ... ".Nella mattinata di quello stesso giorno, a Comacchio, Ugo Bassi viene brutalmente perquisito, benché sia un sacerdote. Ancora una volta mons. Feletti protesta energicamente e informa il cardinale Oppizzoni, il quale, mal scegliendo il momento, ha intanto reso pubblico un documento in cui, pur senza nomi, c'è una dura condanna dell'operato di Ugo Bassi e Alessandro Gavazzi come cappellani militari. Nel pomeriggio del giorno 5 i due prigionieri sotto scorta di una cinquantina di soldati austriaci, giunti appositamente da Ravenna, sono prelevati dal carcere di Comacchio e, avvinti in catene, su due vetture vengono trasferiti a Bologna. Qui, la dera del giorno 7 agosto, sono rinchiusi in un torre del parco di Villa Spada, sede del generale Gorzkowski. La notizia dell'arrivo di Bassi e Livraghi si sparge per la città in un baleno. Il fatto che essi siano stati tenuti separati dagli altri legionari garibaldini, che intanto erano affluiti, prigionieri, in varie carceri bolognesi, desta allarme e preoccupazione. La sorella Carlotta, angosciata, si precipita subito a Villa Spada, e a fatica ottiene di poter parlare, sia pur per breve tempo, con Ugo Bassi, che si sforza di consolarla e di mostrarsi sereno. Subito dopo quel penoso colloquio, egli e il Livraghi sono condotti alle carceri della Carità, per attendervi la sentenza. In fatto non vi fu alcun processo, neppure sommario. Il generale Gorzkowski, che il giorno 8 doveva rassegnare il governo di Bologna nella, mani del conte Strassoldo, per assumere altro incarico, volle ammonire con un "esempio" la popolazione a non far nulla in favore del "bandito" Garibaldi di cui si erano perse le tracce e dei suoi uomini. Distorse quindi la verità, accusando Ugo Bassi di detenzione d'armi e il Livraghi, suddito austriaco, di diserzione, e poiché questi reati erano puniti con la morte, ordinò la fucilazione dei prigionieri, da eseguirsi nel più breve tempo possibile, perché nessuno in città - la Curia o i Barnabiti - potesse intervenire e salvare la vita almeno del più prestigioso dei due. La mattina del giorno 8 agosto vengono convocati a Villa Spada due sacerdoti, don Gaetano Boccolini e Don Ludovico Paolo Casali, cappellani della chiesa di S. Maria della Carità, "per assistere due delinquenti che devono essere fucilati". Verso mezzogiorno, in carrozza chiusa e scortata da soldati, giungono i due prigionieri che sono accompagnati in una stanza della villa. Qui un ufficiale legge subito loro il decreto con la condanna a morte, poi li lascia con i due sacerdoti confortatori. A quel terribile annuncio Ugo Bassi era preparato: da mesi viveva in ambienti militari e la legge marziale gli era ben nota, e inoltre sapeva benissimo di essersi inoltrato per una via così inusitata per un italiano e ancor più per un sacerdote, che non poteva sperare clemenza da un uomo quale il Gorzkowski, tuttavia protestò fieramente la propria innocenza: "Aveva assistito i morenti sul campo, non aveva mai negato il soccorso neppure ai nemici, non era armato, come non lo era il suo compagno, non era reo .... " .. I Chiese di poter parlare con l'amico, Padre Paolo Venturini, ma ciò non era possibile, allora si rivolse a Don Gaetano Baccolini, che era turbatissimo e poi "raccoltosi alquanto in sé medesimo, siccome quegli che già era apparecchiato, si mise a ginocchioni e fece la sua confessione generale; la qual terminata, domandò il santo Viatico: ma dettogli che la distanza dalla chiesa e la strettezza del tempo non permetteva, alzò gli occhi al cielo, calcossi la mano sul petto e mandò un sospiro a Dio" (A. Bresciani). Dettò poi, perché fosse resa pubblica, la seguente dichiarazione: "Se mai si trovasse, in qualunque mio scritto, parola, proposizione, o massima qualunque che avesse offeso Pietà, Onestà, Religione, intendo e voglio ritratta, nel più valido ed efficace modo, e così pure intendo di qualunque parola o discorso detto in pubblico, od in privato, amando di riparare a qualunque scandalo, e di giovare al bene spirituale di chicchessia, poiché bramo e voglio morire da vero Cristiano". Intanto il Livraghi era caduto in uno stato di indescrivibile agitazione e gridava la sua rabbia e la sua innocenza; allora il Bassi a cui doleva infinitamente di non aver mai ascoltato i suoi consigli di prudenza e di averlo portato a morire, gli si avvicinò, e compiendo fino all'ultimo il suo ufficio di cappellano militare seppe trovare le parole che consolano e rendono forti. I due condannati diedero poi disposizioni per i pochi oggetti e il pochissimo denaro di cui disponevano. Ma l'ora incalzava. Incatenati ai polsi, furono fatti salire con i due sacerdoti su un carro militare circondato da soldati, e al rullare sordo dei tamburi furono condotti fino alla via della Certosa. Vicino agli archi 66-67 dovettero scendere. La commozione prese tutti i presenti. Padrone di sè fino all'ultimo Ugo Bassi salutò affettuosamente il compagno che doveva essere fucilato per primo: "Fra poco saremo congiunti" disse. In ginocchio presso il corpo inanimato del Livraghi, parlò ancora con fermezza: "Chieggo perdono a tutti e perdono a tutti. Raccomando la Religione e godo di spirare in pace sotto le ali di Maria Santissima di S. Luca". 
Fucilazione di Ugo Bassi

Volle che fosse un sacerdote a bendarlo. Prese a recitare con la sua armoniosa voce: "Ave Maria"... una scarica di fucileria troncò l'ultima parola. Fu sepolto poco lontano senza bara, in una fossa insieme al Livraghi. Nei giorni successivi gruppi sempre più numerosi di bolognesi si recarono su quell'indegna tomba, la coprirono di fiori e ne tolsero zolle di terra per ricordo. Sui muri della città apparvero scritte minacciose contro gli austriaci e aspre parole di vendetta per quell'uomo, un sacerdote, ucciso senza processo, in violazione delle leggi dello stato della Chiesa, da un generale straniero, animato da disumano odio. Nella sua relazione dei fatti al Radetzky il Gorzkowski, infatti non giustifica più il suo operato parlando di armi, come causa della condanna, ma sprezzantemente si limita ad annunciare la fucilazione del "famigerato cappellano Ugo Bassi, uno dei più fanatici repubblicani, tenuto alla stregua del rinomato predicatore Gavazzi". Per impedire ai bolognesi di manifestare i propri sentimenti di amore e di devozione al martire, nella notte fra il 18 e il 19 agosto i due corpi vennero esumati e occultati nell'interno del cimitero della Certosa dalla polizia pontificia: il Bassi fu sepolto senza nome sotto una gradinata del recinto degli ecclesiastici, probabilmente con il consenso del cardinale Oppizzoni, sollecitato dalla desolata sorella di lui, e il Livraghi nel recinto dei militari.
Soltanto nell'agosto del 1859 i parenti ottennero che le ossa di Ugo Bassi fossero collocate nella tomba di famiglia accanto ai genitori. 

Si ringrazia il Prof. Guido Vancini che ha cortesemente fornito la documentazione utilizzata.

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