Comitato per la
Glorificazione di
Ugo Bassi (sacerdote, patriota,
garibaldino)
Ugo Bassi
Dal sito del
Comune di Cento (Ferrara)
Ugo Bassi (1801 – 1849
In una tranquilla
strada di Cento ancora esiste la modesta casa in cui, il 12 agosto 1801, vide
la luce Giuseppe (Ugo) Bassi. Tanto gracile era quella creaturina che, temendo
per la sua vita, i genitori la fecero immediatamente battezzare. Due anni dopo
la famigliola si trasferì a Bologna. Il padre, Sante Luigi, era impiegato della
dogana pontificia; la madre, Felicita Rossetti, una cameriera originaria di S.
Felice. Da lei il piccolo ereditò un temperamento energico e affettuoso
insieme. L'infanzia e l'adolescenza di Ugo Bassi coincisero con il periodo
dell'occupazione napoleonica. La sua anima sensibilissima tanto si infiammò
alle idee di libertà e di servizio alla patria che, nell'aprile 1815, chiese di
essere arruolato nell'esercito di Gioacchino Murat. Per l'acerba età e
l'esilità della persona non venne nemmeno preso in considerazione. A questa
cocente delusione si aggiunse poco dopo il profondo dolore per la morte di una
ragazzina, Annetta Bentivoglio, di cui si era innamorato con tutta la capacità
di dedizione che era e rimase la caratteristica più profonda della sua
personalità. Nel 1816, con l'aiuto economico di un sacerdote bolognese, entrò
nel Collegio di S. Lucia, retto dai Barnabiti, un collegio aristocratico, con
insegnanti di valore che gli diedero un'istruzione classica severa e profonda.
La sua intelligenza vivacissima e l'estrosità del carattere lo distinsero
presto dai compagni, fra i quali trovò amici generosi e leali, che gli furono
vicini per tutta la vita, come il conte Livio Zambeccari e poi Paolo Venturini,
Alessandro Ramenghi e Alessandro Gavazzi che diventeranno Barnabiti. In questo
ambiente maturò la vocazione religiosa del Bassi, una vocazione vera, sincera,
profonda, a cui non venne mai meno.

Stemma Comune di Cento (FE)
Nonostante l'opposizione paterna, egli vestì
perciò l'abita di Barnabita e nel 1821 pronunciò i voti a Roma, nella chiesa di
S. Carlo. Lo studio indefesso aveva indebolito la sua salute, che era sempre
stata delicata; molto frequentemente era colto da malori, perciò i superiori lo
destinarono, come insegnante, al Collegio di Pontecorvo e poi a quello di
Caravaggio a Napoli, nella speranza che il buon clima di quella città gli
giovasse. Certo egli là non conobbe riposo. Il suo desiderio di imparare non
aveva limiti: leggeva e discuteva di tutto, sorretto da una memoria prodigiosa;
rapito dall'amore per la musica arrivò a suonare magistralmente il cembalo e
inoltre la chitarra e il violino; disegnava e dipingeva. Ma soprattutto si
sentiva spinto ad avvicinare continuamente ogni genere di persone, e tutti
riusciva a conquistare con la signorilità dei modi, la piacevolezza del
conversare, la larghezza di idee, la generosità. E chiaro che per un giovane di
tal genere l'insegnamento, sia pure in un importante collegio, non
rappresentava un tipo di vita del tutto soddisfacente, e poiché l'ordine
barnabitico gli offriva un'altra attività - la predicazione - ecco che il Bassi
cominciò ad interessarsene. Dal 1825 al 1833 ebbe sempre più numerose
possibilità di parlare in pubblico, entusiasmando i giovani, ma destando
perplessità negli anziani per lo sfoggio continuo della cultura profana, e per
l'esuberanza delle immagini e della fantasia. Ad Alessandria, nel Collegio di
S. Alessandro dove sarà chiamato a vivere per alcuni anni, si troverà
malissimo. Insieme al più giovane e ritrovato amico bolognese Alessandro
Gavazzi, spirito irrequieto e intraprendente, incorrerà più volte nel biasimo
dei superiori, ma finalmente, dal 1833, la sua carriera oratoria diventa rapida
e sfolgorante. Nel 1834 è acclamato dall'esigente pubblico che affolla la
chiesa torinese di S. Carlo. L'anno dopo realizza il suo sogno più vivo: è
chiamato a predicare la quaresima in S. Petronio a Bologna. Fra un crescendo di
approvazioni e di ascoltatori tenne ben trentacinque prediche. Gli ammiratori
giunsero a litografare un suo ritratto, ma la maggior parte del clero lo
criticò aspramente, e il cardinale Spinola lo denunciò al segretario di stato
cardinale Benetti, per alcune sue espressioni ritenute offensive nei riguardi
del governo papale. A quaresima finita, per chiarire le cose, il Bassi si recò
immediatamente a Roma. Il pontefice Gregorio XVI, ricevutolo in udienza, ne
accettò le giustificazioni e con paterno atteggiamento si limitò a
consigliargli di "predicare più ponderatamente". Come predicava Ugo
Bassi? Egli era solito comporre e poi mandare a memoria i suoi discorsi, che
non duravano mai meno di due ore, ma poi, nella foga del momento, in presenza
dell'uditorio, si lasciava andare ad improvvisazioni, stordiva con un profluvio
di citazioni, nomi e date, aveva folgorazioni cui non sapeva resistere, con
scapito, qualche volta, della struttura della predica, che risultava così più
entusiasmante ma anche meno organica. Il linguaggio era ricercato, fortemente
acceso, ricco di parole trecentesche, anche in disuso. Le immagini si
accavallavano, ma non potevano smorzare i toni polemici e la novità degli
argomenti: all'evangelizzazione più ortodossa egli affiancava la denuncia
aperta, inequivocabile, dei mali della società contemporanea, la difesa dei
diritti degli oppressi e degli umili, una difesa tanto vibrante da apparire
provocatoria ai moderati e ai conservatori e soprattutto a chi deteneva il
potere. Provocatorio era anche l'atteggiamento dell'oratore, che non esitava a
ricorrere a mezzi teatrali pur di impressionare l'uditorio: ogni inflessione
della voce calda e sonora era sfruttata, ogni gesto delle mani, ogni movimento
del corpo, ogni espressione del viso e soprattutto il volgere degli occhi neri
e scintillanti sottolineavano, ingigantivano, imprimevano le frasi più
infuocate. Va da sè che una tale oratoria, se piaceva ai giovani e ai liberali,
incontrava il disappunto più vivo di gran parte del clero e provocava tali
polemiche che ben presto il nome del nostro Barnabita fu noto dappertutto. Nel
1836 è a Cesena per il quaresimale, riuscitissimo. Prima di lasciare la città è
invitato dal vescovo Cadolini ad una "accademia poetica" nel suo
palazzo, il che permette al Bassi di far conoscere l'aspetto cordiale del suo
carattere, con poesie estemporanee assai applaudite. Anche il 1837 è un anno di
trionfi. Nell'insigne chiesa palermitana detta dell'Olivella, autorità e
pubblico ascoltano con entusiasmo il suo quaresimale; le più nobili famiglie
della città gareggiano nell'ospitarlo, ma più che questa parentesi mondana a
noi piace ricordare lo slancio generoso che ricondusse il Bassi a Palermo
nell'estate di quello stesso anno, in soccorso degli ammalati di colera. Un
quinto dei Palermitani morì. Ugo Bassi si prodigò nell'ospedale di S. Domenico
e in case private, senza risparmio.

Castello di Cento, città natale di Ugo Bassi
Il 23 aprile, giorno
di Pasqua, i volontari pontifici entrano in Bologna entusiasticamente accolti. Dal
fronte giungono notizie esaltanti: le vittorie dell'esercito sardo a Goito,
Valeggio, Monzambano, costringono al silenzio gli oppositori della lotta per
l'indipendenza italiana. Davanti alla chiesa di S. Petronio viene eretta
un'alta tribuna. Per una settimana Alessandro Gavazzi e Ugo Bassi vi si
alternano per arringare la folla e sollecitare offerte di denaro e di quant'altro
è necessario per le truppe. Ugo Bassi tenne il suo primo discorso il 25 aprile.
Nella sua bruna e lunga capigliatura già compariva qualche filo d'argento, ma
la voce era ancora quella potente e suggestiva della giovinezza. Non fu grande
- si legge su "La Gazzetta di Bologna" - ma mirabile, ma portentoso,
ma superiore ad ogni possibilità di credere ed appena aggiungibile al vero pei
testimoni di veduta che per ventura furono infiniti. Chi ieri non fu commosso,
non ha cuore in petto, o l'ha di bronzo". E padre Paolo Venturini scriverà
al Generale dell'Ordine, padre Caccia: "(Bassi)
domandò offerte per l'armata; un solo pendente alle donne;' e fu pieno il palco
di orecchini, monili, che egli accoglieva baciandoli; quindi denaro e si
raccolsero in un momento seicento scudi; poi l'offerta durò dalle tre fino alle
sette, correndo il popolo a portar vesti, cappotti, armi, camicie, quanto
aveva. Si videro poveri cavarsi la camicia e il corpetto sulla piazza, vuotarsi
le tasche dai pochi soldi. Insomma un fremito, un trionfo, d'un genere tutto
nuovo e non mai più visto. Il Bassi finita la predica, montò in carrozza: il
popolo staccò i cavalli lo condusse dal Legato e trascinò la carrozza sulla
prima scala che è tutta cordonato; ma forse la fatica, la commozione, o la
scossa del legno, egli venne a meno e dovettero ricondurlo a casa".
Nei giorni successivi il Barnabita si impegnò in una appassionata opera di
pacificazione fra i Bolognesi, poiché erano accadute manifestazioni di
intolleranza nei riguardi di illustri cittadini ritenuti ostili, fra i quali
Gioacchino Rossini. Il musicista "inviso
ai liberali pel vituperevole contegno che tenne verso gli immigrati italiani
fin dal 1831 a Parigi" (Bottrigari), con la moglie aveva lasciato
immediatamente la città. Ugo Bassi, amareggiato dal fatto, il 29 aprile << ... sull'imbrunire ... chiamò nella
piazza maggiore e invitò il popolo a seguirlo- fino al palazzo Donzelli, Ivi,
fra due torce accese, comparve al balcone dove era stato ingiuriato Rossini, si
dié, come da Pergamo, a riprendere coloro, che, arrogandosi il nome di
patrioti, scambiano la libertà in licenza .... " . Rossini, informato
di ciò, scrisse una cortese lettera di ringraziamento ad Ugo Bassi, ma rimase a
Firenze. Il giorno 30 Ugo Bassi è a Cento, e parla per due ore in piazza, è poi
festosamente acclamato il giorno dopo a Pieve di Cento. Si reca a Lugo e Faenza,
infine ritorna a Bologna. Qui trova una sconvolgente notizia giunta da
Roma: nel concistoro segreto del 29 aprile Pio IX ha nettamente disgiunto le
responsabilità della chiesa dalla causa dell'indipendenza italiana. Il
cardinale legato Luigi Amat, preoccupatissimo per le conseguenze che tale nuovo
e inatteso atteggiamento papale può avere sull'ordine pubblico, convoca Ugo
Bassi e gli chiede di adoperarsi quanto più può come pacificatore. Egli con
sollecitudine parla in S. Petronio affermando che il Pontefíce non può aver
mutato animo, ma ha dovuto cedere alle pressioni di chi gli sta intorno:
bisogna attendere con fiducia l'evolversi della situazione. Ma lo stesso frate
sente franare qualcosa in sé, sente che non può più arringare la folla con
l'animo sereno e con quella sicurezza che tutti scuoteva, e poiché il suo
reggimento è già nel Veneto, parte a cavallo con l'antico Gavazzi, per
raggiungerlo. Il giorno 8 maggio è a Venezia e si presenta a Daniele Manin. Fra
i due fiorì subito un'intesa cordiale che si trasformò presto in profonda
amicizia. Il giorno successivo parlò in piazza S. Marco, insieme all'avvocato
Dionigi Zannini; notevole fu la raccolta di denaro, armi e indumenti Finalmente
raggiunse il suo reggimento a Treviso, mentre la città stava per essere
evacuata dal generale Ferrari, costretto a ripiegare su Mestre. A difesa di
Treviso rimasero solo poche unità militari, tra cui il reggimento di Ugo Bassi.
Il giorno 12 gli Austriaci sferrarono contro la città un assalto che fu
respinto. Ugo Bassi, disarmato, si trovò per la prima volta in una battaglia e
lo si vide, impavido, dove maggiore era il pericolo a incoraggiare i
combattenti. Nel pomeriggio poi accompagnò in una temeraria sortita il generale
bolognese marchese Alessandro Guidotti, che cadde colpito a morte. Anche il
Bassi, che gli era accanto, rimase ferito ad una mano, a un braccio e al petto.
Subito soccorso e curato, si mostrò orgoglioso di essere stato accomunato nella
sofferenza a tanti eroici compagni d'arme. Del fatto informò subito padre
Caccia, con l'entusiasmo di chi è sicuro di agire per il meglio, ma il suo
superiore, preoccupato per il buon nome dell'Ordine aveva preso intanto una
gravissima decisione, inoltrando al Pontefice un memoriale in cui, constatato
che ormai padre Bassi "vive fuori del rispettivo suo chiostro" e che
era evidente "la non leggera difficoltà che dallo stesso individuo si
incontrerebbe qualora avesse di bel nuovo da assogettarsi alle pratiche della
regolare osservanza" chiedeva che venisse passato dall'Ordine dei
Barnabiti allo stato di sacerdote secolare. Ignaro di tutto questo, il Bassi,
poiché le ferite non sembrano preoccupanti, continua a vivere tra i soldati, a
interessarsi dei loro problemi, a eccitarne lo spirito combattivo. Quando anche
i soldati pontifici devono lasciare Treviso, Ugo Bassi porta il contributo
della sua azione alla difesa di Venezia. Ma la ferita al petto lo fa soffrire
indicibilmente. Un chirurgo veneziano si rende conto che il proiettile è
rimasto incastrato fra le costole. L'intervento per estrarlo è difficile e
doloroso, ed è seguito da una infezione che dura più di un mese. Ai primi
di luglio egli pubblica una raccolta di versi patriottici. L'illusione politica
su Pio IX è ormai svanita, neppure di Carlo Alberto di Savoia si fida, e se
l'imperativo del momento gli appare uno solo: la guerra allo straniero, nel
futuro dell'Italia egli comincia a intravedere una repubblica, in cui uomini
come Daniele Manin si pongano a guida di un popolo ricondotto ad una religione
più salda e incorrotta. All'inizio di agosto, ormai guarito, è fra i soldati di
forte Marghera. A Roma, intanto, il 21 luglio Padre Caccia ha ottenuto dal Papa
il rescritto di secolarizzazione per Ugo Bassi, ma non sa in quale modo renderlo
esecutivo. Infine (il 15 agosto) decide di inviarlo al cardinale di Bologna
Oppizzoni, da cui il sacerdote dovrà d'ora in poi dipendere. Il cardinale
conosce, e benissimo, tutte le vicende in cui è stato coinvolto Ugo Bassi, ma
non esita a prendere una decisione contraria a quella che padre Caccia si aspetta,
cioè trattiene presso i sé il rescritto senza minimamente informarne l'interessato.
E sì che una occasione di valersene gli si presenta quando, poche settimane
dopo, il patriarca di Venezia, Jacopo Monico, gli chiede con urgenza notizie su
quel Barnabita così scomodo e ormai popolare in Venezia: l'Oppizzoni gli
risponde con frasi evasive. E' lo stesso Bassi a presentare un memoriale alla
curia veneziana, per esporre le proprie idee e precisare i compiti cui attende,
ma proprio la chiusa di tale memoriale irrita profondamente il patriarca:
"In ultimo e' bacia le venerande
mani a S.E. il sig. Patriarca, pronto a ubbidire in tutto poiché chi è vero
italiano come il P.Gavazzi ed altri, è di certo buono e giusto e che non tocchi l'onore di vero Italiano, (il
che non crede verrà mai da S. Em.); e chi non ama l'Italia e l'indipendenza
italiana, insomma chi non è vero italiano, non è né può essere buon
ecclesiastico; ma un infame e un traditore". Per arrivare a colpire il
Bassi, inattaccabile nella vita privata, il Patriarca chiede allora al generale
Ferrari di porre tutti i cappellani pontifici alle dipendenze della curia
veneziana; e successivamente attacca violentemente il Barnabita per le sue idee
e la sua azione politica. L'accusato risponde subito con un discorso in piazza
S. Marco ed un lungo documento (pubblicato il 25 ottobre) pieno di vibranti
proteste e critiche al patriarca. Indignatissimo di tanta audacia, il cardinale
Monico scrive lo stesso giorno al generale Ferrari perché riprenda come si
merita il frate, ma non è ascoltato, perché il 27 ottobre nel vittorioso
assalto a Mestre Ugo Bassi è l'unico dei cappellani militari che fa il proprio
dovere. Leggiamo in un articolo del giornale l'"lndipendente" che
egli "...con in mano una piccola
bandiera improvvisata da lui, primo di tutti e facendo coraggio ai soldati si
scagliò in mezzo la via contro la penultima casa che fu levata agli Austriaci;
e quindi coi lombardi corse e scavalcò il muro di casa Bianchini, aiutò a
forzare le porte barricate ed entrò nella casa dove diede assistenza spirituale non solo ai nostri ma eziandio ai
nemici morenti". Per tutto il mese di novembre continuò la sua
difficile opera di religioso nei forti e negli ospedali. Fuggito il papa a
Gaeta, tutte le truppe pontificie ricevettero l'ordine di rimpatriare. Fu con
grande dolore che Ugo Bassi si staccò dall'amico Daniele Manin che non doveva
più rivedere. Le truppe del generale Ferrari furono accolte festosamente a
Ravenna.Qui fra gran folla, il Bassi parlò sulla tomba di Dante, di notte,al
lume di fiaccola, contro i traditori della causa italiana. Con il permesso del
generale si recò poi a Bologna, dove giunse il 15 dicembre mutato dalle
esperienze militari dalle delusioni, ormai convinto della necessità di por fine
al potere del papa e infiammato alle idee repubblicane nutrite dall'ammirazione
per Manin e con tuttavia ancor qualche stima personale per Pio IX, considerato
succube dell'ambiente di Gaeta, impedito di manifestare liberamente se stesso.
Vive fra gli uomini del battaglione dell'amico Livio Zambeccari, frequenta il
circolo popolare fondato dal Gavazzi, organizza riunioni, pubblica opuscoli e
manifesti, pronuncia pubblici discorsi anche in vari paesi della diocesi (fra
cui Cento) per caldeggiare la ripresa della guerra all'Austria e la
partecipazione all'elezione dei duecento componenti dell'"assemblea nazionale
costituente" di Roma.
Il l° gennaio del 1849 Pio IX in una enciclica diretta ai sudditi, in difesa
del proprio potere temporale, dichiara
scomunicati tutti coloro che, in qualsiasi modo, si adoperino contro di
esso. I circoli popolari aprono liste di arruolamento di militi in difesa del
nuovo governo romano e Ugo Bassi prende immediatamente posizione pubblicando un
opuscolo "Della scomunica e più altre cose de' tempi nostri" che
desta un vasto interesse. L'enciclica papale ha gettato il più profondo
turbamento nel clero, negli ambienti militari e nella amministrazione, e in
tutti gli strati della popolazione. Per rispondere agli interrogativi che
angosciano tante coscienze, appassionatamente - e poco realisticamente - Ugo
Bassi si ostina a sostenere che il Papa del 1846 e '47 non può aver mutato
animo e che il decreto di scomunica gli è stato estorto dai retrivi che lo
circondano; gli sembra assurdo che si possa insistere su questa via: "...scomunicare un popolo vorrebbe dire
seminarvi l'anarchia e la guerra civile".Egli crede che la costituente
romana "richiamerà il Papa, ma a
condizione solenne di gridare la guerra all'austriaco e liberare la Lombardia e
Venezia". Se il Papa non accetterà, si andrà con Cristo: "Egli ha detto: il mio reame non è di questo
mondo... Egli ha detto non volere, che i suoi discepoli facciano a modo dei re
e dei tiranni ... hanno detto che noi
dobbiamo amare i fratelli oppressi e afflitti meglio del padre e della madre,
non che meglio del principe qual si sia... Noi per la redenzione de' veneti e
de' lombardi daremo la vita nostra... Dio ne benedice: e se Dio ne benedice,
qual uomo, qual pontefice...ne può maledire! ... ". Come si vede non
si può certo parlare di un vero e proprio pensiero politico del Bassi, ma
subito colpisce la sua sincerità, il suo disinteresse, il suo amore per gli
oppressi disposto a tutto, la sua ansia di collaborare fattivamente alla
unificazione di un paese asservito allo straniero, di vederlo liberamente
governato. La reazione dei clericali conservatori non è descrivibile: poesie di
scherno e lettere anonime diffamanti circolano in Bologna, ma a suo conforto
sta l'appoggio e la stima affettuosa del provinciale dei Barnabiti, padre Paolo
Venturini, filologo di grande valore, insegnante aperto e preparato,
italianissimo di sentimenti. L'annuncio della proclamazione della Repubblica
Romana, giunto a Bologna l'11 febbraio non commosse un gran che la
cittadinanza, ma Ugo Bassi preso da acerbo sdegno per l'ambiente che lo
circondava, maligno ed inerte per la gran parte, decise di raggiungere le
truppe del generale Ferrari, che a Terracina si disponevano a combattere contro
il generale Zucchi, rimasto fedele al Papa. La notizia della sua partenza fu
accolta con sollievo dal cardinale Oppizzoni, che quotidianamente era subissato
di denunce e proteste contro quel frate
che non indossava più l'abito barnabitico, ma avendone conservato solo il
collare, usava una specie di divisa militare, con calzoni e tunica nera, una
croce tricolore cucita sul petto, un Crocefisso infilato nella cintura, e che
frequentava locali pubblici con i soldati. Il disporsi a combattere contro
le truppe pontificie in difesa della Repubblica Romana, non è, per la coscienza
del Bassi, un atto di ribellione: il pontefice è venuto meno - e per sempre -
al suo impegno di benedire l'Italia; un cattolico è ormai legato al suo
pontefice solo religiosamente arguisce Ugo Bassi , non più politicamente.
Ugo Bassi, postosi al di là di ogni corrente e di ogni partito, sacerdote
integerrimo, tutto preso dall'evangelizzazione e che tuttavia combatte senza
incertezze contro il Papa, è ormai un personaggio difficile da capire anche per
gli stessi amici. Il 4 marzo egli è finalmente a Roma. Qui trova un
ambiente eterogeneo, uno scontrarsi di opinioni e speranze, e, per quanto sia
bene accolto, diventa insofferente e teso. Gode della sconfitta subita a Novara
da Carlo Alberto di Savoia, "giusta
punizione dei suoi errori", e pubblica un indirizzo a Pio IX,
criticando aspramente la sua decisione di invocare l'intervento straniero: " ... Ma voi vel sapete, o Santo Padre,
... che noi non vi abbiamo cacciato, ma voi n'avete lasciato in abbandono
all'anarchia e alla morte: vel sapete che richiamato due o tre volte n'avete avuto
onta e dispregio... E poiché gli altri re, quando non fanno il bene del popolo,
ma il male, quando abbandonano il governo e lasciano l'anarchia, si cacciano o
si depongono, così si può fare di Voi come in altri senza peccare nella vostra
Sacrosanta Persona. Cristo solo, o Santo Padre, Cristo solo, Salvatore del
mondo, e non re, è tutto divinità: ma chi dice che il Papa è Dio è un pagano.
Quindi... chi contraddice alla persona di vicario del Cristo nel Papa,
contraddice al Cristo, ma chi alla persona di re nel papa, quando il Papa sacrifica al re i popoli, contraddice all'ingiustizia,
all'umanità, al male... ". Dopo un periodo di forzata inattività,
finalmente viene nominato cappellano della legione italiana comandata da
Giuseppe Garibaldi, che raggiunge a Rieti il 4 aprile. L'eco di questo primo
emozionante incontro è in una lettera scritta in quei giorni da Ugo Bassi: "...Garibaldi è l'eroe più degno di
poema, che io sperassi in vita mia di vedere. Le nostre anime si sono congiunte
come se fossero state sorelle in cielo prima di trovarsi nelle vie della
terra". E qualche giorno dopo, da Anagni, confermerà: "...Garibaldi!
Questi è l'eroe cui cercando andava l'anima mia. L'Italia è Garibaldi...
". Predica alle popolazioni e ai legionari; per far cosa grata a Garibaldi
sveste il nero abito barnabitico e indossa l'uniforme rossa degli ufficiali
della legione. Non era facile la vita di un sacerdote in mezzo ai volontari,
provenienti da ogni dove rotti a tutte le soperchieria della guerra,
intemperanti nel linguaggio, irriguardosi spesso dei diritti dei civili. Bassi
ne conquistò l'animo dividendo con loro ogni ora della giornata, l'ozio e le
marce, i pericoli e le soddisfazioni. Incurante di sé, sempre pronto a
rincuorare gli afflitti, a soccorrere i feriti, a benedire i morenti ad esporsi
disarmato dove infuriava la battaglia, sapeva anche far rispettare la parola di
Dio, difendere la giustizia. Era "la
coscienza morale" della legione. Il 27 aprile i garibaldini giunsero a
Roma. Tre giorni dopo Ugo Bassi partecipò al vittorioso combattimento contro i
francesi a porta S. Pancrazio, cavalcando tra i volontari. Ebbe ucciso sotto di
sè il cavallo e fu catturato dai nemici per non essersi voluto allontanare da un ferito
rimasto sul terreno della battaglia. Rilasciato in libertà quasi
subito, si distingue per coraggio presso Palestrina, l'8 maggio, in scontri con
pattuglie napoletane che tenta addirittura di arringare. L'aggressione francese
alla città di Roma è improvvisa. A Villa Corsini il 3 giugno gli Italiani
scrivono una fulgida pagina di eroismo: Ugo Bassi si offre più volte come
portaordini in posizioni esposte, raccoglie i feriti, conforta i moribondi,
sordo ad ogni invito alla prudenza, fedele ad un suo motto: "In ultimo se si dèe cadere si cada da forti;
o martirio o vittoria!". Fino alla caduta di Roma andò cercando
fatíche e sacrifici: negli ospedali e in prima linea, dovunque ci fosse una
sofferenza là era Ugo Bassi e tale era la tranquillità della sua
coscienza che nelle brevi ore di riposo attendeva al suo poema "La croce
vincitrice" giunto al 33' canto, da cui si aspettava alta gloria
poetica. In realtà si tratta di un'opera inorganica, che risente delle
emozioni, dei mutamenti d'animo dell'autore. Il giorno 30 i Francesi assalirono
le mura di Roma con tutta la potenza della loro artiglieria. Tra i morti, Ugo
Bassi ebbe lo strazio di annoverare anche il prode Luciano Manara, di cui era
diventato amico carissimo; prima che i Francesi vittoriosi entrassero nella
città, egli volle che i funerali del caduto assurgessero a valore di simbolo.
Nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina, gremitissima di gente commossa, pronunciò
l'elogio funebre, profetizzando per sé prossimo il martirio. La sera
partì da Roma con la legione dei volontari garibaldini. Con abilità e fortuna
Garibaldi riuscì ad eludere più volte gli inseguitori francesi, toscani e
austriaci, benché l'estate torrida, le difficoltà del cammino per contrade
inospitali fiaccassero glí uomini. Anche Ugo Bassi, che faceva parte dello
stato maggiore, era sfinito e febbricitante, ma si sforzava di essere di
esempio agli altri. L'odissea della legione garibaldina durò un mese:
attraverso il Lazio, la Toscana e le Marche il 31 luglio i superstiti giunsero
ai piedi di S. Marino. Da ogni parte si avvicinavano truppe austriache, erano
laceri, affamati, demoralizzati. Ugo Bassi fu mandato come parlamentare al
reggente sammarinese Domenico Belzoppi, a chiedere il permesso di passare per
il territorio della repubblica e viveri. Il Belzoppi dispose che i viveri
richiesti fossero consegnati ai garibaldini, ma al confíne della repubblica,
che nessuno doveva violare. Nella notte, però, Garibaldi, vistosi
irrimediabilmente circondato, diede ordine ai suoi uomini di entrare nel
territorio di S. Marino. Qui giunto li sciolse dall'impegno di seguirlo e si
dichiarò disposto alla resa. Mentre fra la reggenza di S. Marino e gli
austriaci intercorrevano trattative per la sorte dei legionari, Ugo Bassi
assisteva i feriti ospitati nel convento dei Cappuccini. Preso dal
presentimento di essere vicino alla prova suprema, chiese di confessarsi. Al
sacerdote che gli diede l'assoluzione lasciò il vasetto dell'olio santo avuto
da Padre Gavazzi, e un breviario. Intanto il generale austriaco Hahne aveva
fatto pervenire un testo con nove punti preliminari circa la resa. Dopo averli
vagliati, Garibaldi vi scrisse sotto la seguente risposta: "Le condizioni imposte dagli Austriaci sono
inaccettabili, e perciò sgombriamo il territorio". Diede
immediatamente l'ordine di partenza a circa 250 uomini, con cui intendeva
sgusciare fra le maglie dell'accerchiamento nemico e dirigersi quella notte
stessa al mare. Ugo Bassi, immerso nelle strofe del suo poema, le ultime, non
si avvide di nulla. Fu Garibaldi che, accortosi della sua assenza, lo mandò a
chiamare e sia pure con qualche difficoltà il Barnabita riuscì a raggiungerlo. All'alba
dell' agosto il generale Hahne si accorge con somma indignazione di essere
stato giocato e mentre cerca di individuare la strada percorsa dai fuggiaschi
perde altro tempo prezioso. A Gatteo Ugo Bassi è riconosciuto da un reduce
della difesa di Roma che generosamente - quanto inutilmente - gli offre un
rifugio sicuro. Con l'aiuto di diversi patrioti romagnoli nella notte fra il l°
e il 2 agosto i garibaldini giungono a Cesenatico. Qui sette soldati croati di
guardia al porto sono arrestati da Ugo Bassi e da Anita Garibaldi;
contemporaneamente si impedisce alla polizia e alle autorità pontificie di
mettersi in moto. Il commissario di sanità marittima è costretto a requisire 13
imbarcazioni da pesca e a reperirne gli equipaggi. Alle tre di notte, dopo aver
venduto i cavalli e raccolto provviste, i legionari cominciano a imbarcarsi;
alle sei salpano, benché una forte marea ostacoli la manovra. Conducono con sé
come ostaggi i croati e un brigadiere. Garibaldi vuole che Ugo Bassi salga
nella sua stessa barca, dove sono anche Anita e il romano Cíceruacchio con i
figli. Due ore dopo il governatore civile e militare delle legazioni,
l'inflessibile generale Carlo von Gorzkowski entra in Cesenatico con le sue
truppe e vede la piccola flotta ormai al largo. Furente dispone che tutta la
costa fino a Venezia sia messa sotto rigoroso controllo e che il porto di
Magnavacca sia presidiato da truppe dotate di cannoni: non deve sfuggire quel
bandito che ha superato la sua stessa leggenda beffandosi, in quella marcia
verso Venezia, di un esercito di migliaia di uomini perfettamente equipaggiati
e comandati da esperti generali. La navigazione nella giornata calma e bella
andò bene fino al pomeriggio; l'imbarcazione di Garibaldi precedeva le altre,
mantenendosi vicino alla costa, dove l'acqua era bassa, ma verso le quattro del
pomeriggio, nelle vicinanze di Goro, una goletta e un brick austriaci scorsero
la flottiglia e si diressero verso di essa.
Caduta la notte, un meraviglioso chiarore lunare tradì i fuggiaschi: il brick,
individuatili, si avvicinò e cominciò a sparare e a lanciare razzi. Varie
imbarcazioni si arresero; solo cinque bragozzi, fra cui quello di Garibaldi,
approdarono fra Magnavacca e Volano. Gli equipaggi reclutati a Cesenatico,
terrorizzati, si abbandonarono alla fuga e anche i volontari si sparsero nelle
zone circostanti. Accanto a Garibaldi e ad Anita morente rimangono Ugo Bassi,
Giovanni Livraghi e G.B. Culiolo detto Leggero. Ma il gruppo è troppo numeroso,
dà nell'occhio, quindi bisogna separarsi: Ugo Bassi e il Livraghi, disarmati,
si dirigono verso Comacchio, dove contano di trovare certi conoscenti.
Attraverso il bosco Eliseo arrivano a S. Giuseppe e di qui si portano alla
Fossa della Fontana, dove ottengono di essere traghettati attraverso le valli
da due fruttivendoli che li accompagnano a Comacchio, all'osteria della Lenza.
Vi giungono verso le ore 11. Uno dei due fruttivendoli è convinto che l'uomo
dalla lunga barba scura e dai calzoni rossi sia Garibaldi e comincia a dirlo in
giro. Il nipote dell'ostessa riconosce Ugo Bassi e lo sollecita a partire
perché nell'osteria possono entrare austriaci. Anche Livraghi insiste per
andarsene, ma il Bassi non ne vuol sapere: è un prete, non ha fatto del male, è
disarmato, perché dovrebbe fuggire? Altri patrioti corrono nell'osteria della
Lenza per aiutare i due a nascondersi, ma ancora Ugo Bassi rifiuta; accetta
solo di trasferirsi all'osteria della Luna per consumare un frugale pasto. Ormai
però la gendarmeria pontificia è stata informata della presenza dei fuggiaschi:
verso le undici e quarantacinque quattro carabinieri entrano nell'osteria della
Luna per arrestarli. Nessuna resistenza è opposta dai due, che sono subito
consegnati al comandante austriaco e chiusi in cella. Il Livraghi è perquisito
e trovato disarmato, il Bassi è privato della borsa di cuoio che contiene solo
oggetti d'uso personale e il manoscritto de "La croce vincitrice". Il
vicario generale di Comacchio, mons. Domenico Feletti, informato dell'accaduto,
si presenta con sollecitudine al comando austriaco e, in nome della curia,
chiede il rilascio del Barnabita, protetto dal diritto canonico, ma l'ufficiale
comandante risponde che in proposito deve chiedere istruzioni al generale
Gorzkowski che, in qualità di governatore di Bologna con pieni poteri, ha
completamente esautorato l'autorità pontificia. In particolare ha istituito due
tribunali, lo statario e il consiglio di stato: il primo, sotto il quale
ricadono tutti i reati politici "non conosce altra pena che la
morte". Il 5 agosto, ricordando le precedenti disposizioni, il governatore
pubblica un'ennesima notificazione in cui chiarisce che "sarà assoggettato
al giudizio statario militare chiunque, scientemente, avesse aiutato, ricoverato
o favorito il profugo Garibaldi ... ".Nella mattinata di quello stesso
giorno, a Comacchio, Ugo Bassi viene brutalmente perquisito, benché sia un
sacerdote. Ancora una volta mons. Feletti protesta energicamente e informa il
cardinale Oppizzoni, il quale, mal scegliendo il momento, ha intanto reso
pubblico un documento in cui, pur senza nomi, c'è una dura condanna
dell'operato di Ugo Bassi e Alessandro Gavazzi come cappellani militari. Nel
pomeriggio del giorno 5 i due prigionieri sotto scorta di una cinquantina di
soldati austriaci, giunti appositamente da Ravenna, sono prelevati dal carcere
di Comacchio e, avvinti in catene, su due vetture vengono trasferiti a Bologna.
Qui, la dera del giorno 7 agosto, sono rinchiusi in un torre del parco di Villa
Spada, sede del generale Gorzkowski. La notizia dell'arrivo di Bassi e Livraghi
si sparge per la città in un baleno. Il fatto che essi siano stati tenuti
separati dagli altri legionari garibaldini, che intanto erano affluiti,
prigionieri, in varie carceri bolognesi, desta allarme e preoccupazione. La
sorella Carlotta, angosciata, si precipita subito a Villa Spada, e a fatica
ottiene di poter parlare, sia pur per breve tempo, con Ugo Bassi, che si sforza
di consolarla e di mostrarsi sereno. Subito dopo quel penoso colloquio, egli e
il Livraghi sono condotti alle carceri della Carità, per attendervi la
sentenza. In fatto non vi fu alcun processo, neppure sommario. Il generale
Gorzkowski, che il giorno 8 doveva rassegnare il governo di Bologna nella, mani
del conte Strassoldo, per assumere altro incarico, volle ammonire con un
"esempio" la popolazione a non far nulla in favore del
"bandito" Garibaldi di cui si erano perse le tracce e dei suoi
uomini. Distorse quindi la verità, accusando Ugo Bassi di detenzione d'armi e
il Livraghi, suddito austriaco, di diserzione, e poiché questi reati erano
puniti con la morte, ordinò la fucilazione dei prigionieri, da eseguirsi nel
più breve tempo possibile, perché nessuno in città - la Curia o i Barnabiti -
potesse intervenire e salvare la vita almeno del più prestigioso dei due. La
mattina del giorno 8 agosto vengono convocati a Villa Spada due sacerdoti, don
Gaetano Boccolini e Don Ludovico Paolo Casali, cappellani della chiesa di S.
Maria della Carità, "per assistere
due delinquenti che devono essere fucilati". Verso mezzogiorno, in
carrozza chiusa e scortata da soldati, giungono i due prigionieri che sono
accompagnati in una stanza della villa. Qui un ufficiale legge subito loro il
decreto con la condanna a morte, poi li lascia con i due sacerdoti
confortatori. A quel terribile annuncio Ugo Bassi era preparato: da mesi viveva
in ambienti militari e la legge marziale gli era ben nota, e inoltre sapeva
benissimo di essersi inoltrato per una via così inusitata per un italiano e
ancor più per un sacerdote, che non poteva sperare clemenza da un uomo quale il
Gorzkowski, tuttavia protestò fieramente la propria innocenza: "Aveva
assistito i morenti sul campo, non aveva mai negato il soccorso neppure ai
nemici, non era armato, come non
lo era il suo compagno, non era reo .... " .. I Chiese di poter
parlare con l'amico, Padre Paolo Venturini, ma ciò non era possibile, allora si
rivolse a Don Gaetano Baccolini, che era turbatissimo e poi "raccoltosi alquanto in sé medesimo, siccome
quegli che già era apparecchiato, si mise a ginocchioni e fece la sua
confessione generale; la qual terminata, domandò il santo Viatico: ma dettogli
che la distanza dalla chiesa e la strettezza del tempo non permetteva, alzò gli
occhi al cielo, calcossi la mano sul petto e mandò un sospiro a Dio"
(A. Bresciani). Dettò poi, perché fosse resa pubblica, la seguente
dichiarazione: "Se mai si trovasse, in qualunque mio
scritto, parola, proposizione, o massima qualunque che avesse offeso Pietà,
Onestà, Religione, intendo e voglio ritratta, nel più valido ed efficace modo,
e così pure intendo di qualunque parola o discorso detto in pubblico, od in
privato, amando di riparare a qualunque scandalo, e di giovare al bene spirituale
di chicchessia, poiché bramo e voglio morire da vero Cristiano". Intanto
il Livraghi era caduto in uno stato di indescrivibile agitazione e gridava la
sua rabbia e la sua innocenza; allora il Bassi a cui doleva infinitamente di
non aver mai ascoltato i suoi consigli di prudenza e di averlo portato a
morire, gli si avvicinò, e compiendo fino all'ultimo il suo ufficio di
cappellano militare seppe trovare le parole che consolano e rendono forti. I
due condannati diedero poi disposizioni per i pochi oggetti e il pochissimo
denaro di cui disponevano. Ma l'ora incalzava. Incatenati ai polsi, furono
fatti salire con i due sacerdoti su un carro militare circondato da soldati, e
al rullare sordo dei tamburi furono condotti fino alla via della
Certosa. Vicino agli archi 66-67 dovettero scendere. La commozione prese
tutti i presenti. Padrone di sè fino all'ultimo Ugo Bassi salutò
affettuosamente il compagno che doveva essere fucilato per primo: "Fra poco saremo congiunti" disse. In
ginocchio presso il corpo inanimato del Livraghi, parlò ancora con fermezza:
"Chieggo perdono a tutti e perdono a tutti. Raccomando la Religione e
godo di spirare in pace sotto le ali di Maria Santissima di S. Luca".

Fucilazione di Ugo Bassi
Volle che fosse un sacerdote a bendarlo. Prese a recitare con la sua armoniosa
voce: "Ave Maria"... una
scarica di fucileria troncò l'ultima parola. Fu sepolto poco lontano senza
bara, in una fossa insieme al Livraghi. Nei giorni successivi gruppi sempre più
numerosi di bolognesi si recarono su quell'indegna tomba, la coprirono di fiori
e ne tolsero zolle di terra per ricordo. Sui muri della città apparvero scritte
minacciose contro gli austriaci e aspre parole di vendetta per quell'uomo, un
sacerdote, ucciso senza processo, in violazione delle leggi dello stato della
Chiesa, da un generale straniero, animato da disumano odio. Nella sua relazione
dei fatti al Radetzky il Gorzkowski, infatti non giustifica più il suo operato
parlando di armi, come causa della condanna, ma sprezzantemente si limita ad
annunciare la fucilazione del "famigerato cappellano Ugo Bassi, uno dei
più fanatici repubblicani, tenuto alla stregua del rinomato predicatore
Gavazzi". Per impedire ai bolognesi di manifestare i propri sentimenti di
amore e di devozione al martire, nella notte fra il 18 e il 19 agosto i due
corpi vennero esumati e occultati nell'interno del cimitero della Certosa dalla
polizia pontificia: il Bassi fu sepolto senza nome sotto una gradinata del
recinto degli ecclesiastici, probabilmente con il consenso del cardinale
Oppizzoni, sollecitato dalla desolata sorella di lui, e il Livraghi nel recinto
dei militari.
Soltanto nell'agosto del 1859 i parenti ottennero che le ossa di Ugo Bassi
fossero collocate nella tomba di famiglia accanto ai genitori.
Si ringrazia il Prof. Guido Vancini che ha cortesemente fornito
la documentazione utilizzata.