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domenica 15 novembre 2020

I frutti contaminati della società anomica dall'amore al suicidio

            I frutti contaminati della società anomica                             dall'amore al suicidio





«C’è un interesse in ciò che è nascosto e ciò che il visibile non ci mostra. Questo interesse può assumere le forme di un sentimento decisamente intenso, una sorta di conflitto, direi, tra visibile nascosto e visibile apparente.» - Rene Magritte

Che cosa è l’amore? E’ un fatto individuale o investe aspetti di natura sociale? E se sì, che influenza ha la società anomica sulla capacità di amare degli uomini? Dal punto di vista biochimico possiamo affermare che l’amore garantisce la sopravvivenza della specie mediante una serie di ricombinazioni continue del DNA, cosa che assicura la sussistenza di una continua e necessaria variabilità genetica. Il sesso, di conseguenza, diventa lo strumento atto a garantire la discendenza della specie. L’amore è ontologicamente un sentimento fondamentale, supportato dal meccanismo biochimico che gestisce i complessi stadi emotivi degli individui ed è localizzato e gestito in una specifica area del nostro cervello conosciuta come nucleo accumbens. Questa struttura cerebrale sovrintende il nostro sistema di premialità, determinando gli stimoli piacevoli e tutta l’energia positiva che ci caratterizza, mediante la quale, riusciamo a sentire gioia, contentezza, piacere dei successi, euforia sino alla sublime estasi di un bacio. In ogni emisfero cerebrale risiede un nucleo accumbens, la complessa area celebrale regolatrice del senso di piacere, del consolidamento delle cose che apprendiamo, dell’euforia fino alla garanzia di sussistenza di un intero sistema motivazionale che ci porta a vivere ogni giorno i piaceri del nostro sé bios interrelato con il nostro sé psichico all’interno dell’ambiente in cui siamo inseriti e con cui interagiamo. Gli ultimi studi delle neuroscienze hanno dimostrato, però, che a questa specifica struttura cerebrale non sono legate solo le esperienze piacevoli, bensì essa coordina anche gli scenari avversi inducendo gli stimoli necessari ad eludere situazioni che possono determinare disagio. Il nucleo accumbens risulta fortemente connesso al sistema limbico, connessione garantita mediante la sua parte esterna detta shell che regola il livello di dopamina, serotonina ed altri neurotrasmettitori la cui concentrazione è strettamente legata agli stati emotivi individuali. Lo shell avvolge la zona centrale detta core, che determina, a sua volta. il set dei movimenti connessi alle emozioni. Questa struttura complessa ci aiuta a pianificare e valutare situazioni, facilitare l’apprendimento, la comprensione e la memorizzazione arrivando ad influire anche sui piaceri legati a sesso e cibo e ciò in funzione del “percorso dopaminergico”, il neuro trasmettitore del piacere e della felicità ma, purtroppo anche della dipendenza. Il nucleo accumbens di fatto attiva le motivazioni dell’individuo, secondo la topica che, definisce Rete 1 la sede dell’euforia, del piacere e della gioia attivate dalle encefaline, mentre l’altra e identificata come Rete 2 è la sede della depressione, dell’ansia e insonnia, attivata dalle dinorfine. Le strutture cerebrali innanzi descritte sono collegate al cingolato anteriore, e siamo così giunti allastruttura ove nasce “l’euforia da cotta”. A questo punto possiamo transitare, edotti, da una fredda ed arida trattazione biochimica al legame con quello che possiamo chiamare “amore che si avvicenda”, che parte dal primo stato, quello dell’infatuazione, il quale a seguito di input generati da sensi ed olfatto provoca il rilascio di dopamina, la molecola della felicità. L’oggetto del nostro amore diviene la nostra droga, e mentre in lui aumenta il testosterone in lei aumenta il livello di estrogeni. La “cotta” esplode in tutta la sua sensazionale magnificenza percettiva. L’attaccamento è lo stato successivo che in genere esplode nell’arco di 180 giorni dal primo incontro, per cui alla dopamina si aggiungono altre molecole come la feniletilamina che amplia gli stati emotivi esaltanti. La risultante di tutto ciò è un letterale impazzimento d’amore dovuto alla riduzione di serotonina, regolatore dell’umore, e qui vale il detto “l’amore è cieco” e questo perché i complessi meccanismi biochimici limitano le capacità di giudizio critico. Ed è qui che la fase di attaccamento si affievolisce visto e i livelli di cortisolo, ormone dello stress, aumentano trasportandoci nella fase della passione con rilascio di oxitocina che spinge a provare sensazioni di dolcezza e tenerezza. Si giunge infine, all’ultima fase di questo processo ciclico: il bivio, durante il quale il sistema limbico valuta ansie e paure, seppur continuando a produrre endorfine, sostanze il cui tenore è elevato durante i rapporti sessuali e che generano sensazioni piacevoli e di euforia, e quindi le fasi cicliche dell’amore ricominciano. E se al bivio il processo si blocca? L’andamento ciclico delle fasi d’amore si interrompe e irrompe la figura dell’abbandonato/a che diventa lo stato emotivo più doloroso da gestire. Allora i livelli di dopamina salgono vertiginosamente per cui ritorna un desiderio ossessivo-compulsivo rivolto verso la persona amata. In molti casi il soggetto “abbandonato” presenta dopo un breve periodo una sindrome depressiva, spesso talmente grave da incidere con ferite nell’anima arrivando a condizionare negativamente la qualità della vita dell’individuo per un lungo periodo. Ma l’amore fin qui descritto è visto prevalentemente nell’ottica biochimica, ma esiste una via di lettura alternativa da percorrere per comprendere il fenomeno dell’innamoramento nei suoi ulteriori e molteplici aspetti chiedendoci “di chi”, in che “contesto” e “come” ci siamo innamorati? È chiaro che l’amore costituisce un evento che riorganizza interamente il nostro cervello nel momento in cui veniamo in contatto con una persona che ci attrae Ciò pervade il nostro sistema sinaptico, tutti i neurotrasmettitori si attivano determinando la pulsione attrattiva, lo stato euforico, l’eccitazione ed anche l’ossessione dell’altro. Tutto questo ci distoglie dal contatto con la realtà quotidiana perché in maniera incontrollata pensiamo sempre a quella persona della quale costruiamo dentro di noi un modello predittivo, finalizzato ad anticipare ciò che penserà, ciò che potrebbe provare, quali saranno le sue reazioni agli stimoli proposti dal nostro agire nella costante paura di sbagliare ed essere male interpretati. Qui nasce un grande dilemma, ed esso appare quando il modello mentale costruito incontra la realtà. Nella maggioranza dei casi gli scenari previsionali divergono da ciò che avviene e allora è lecito chiedersi se di fatto noi ci innamoriamo di un’altra persona oppure soltanto dell’idea che abbiamo costruito di essa? I meccanismi biologici dei vari stati connessi all’amore li abbiamo tutto sommato analizzati, e a questo punto par d’uopo interrogarsi circa le interrelazioni tra il sé bios e il sé psichico di un individuo nella fase di innamoramento e del ruolo che gioca la realtà. Ma cos’è la realtà? La si può identificare solo con il mondo fisico? Che relazione ha la realtà con lo stato mentale connesso ad esempio a un incubo da cui ci svegliamo riconnettendoci d’improvviso ad un mondo ed a una realtà vissuta e abbandonata nella fase onirica. Ciò che rappresenta la realtà a questo punto può essere definita solo individuando specifiche condizioni psicofisiche, in un determinato contesto spazio temporale ed è pertanto e comunque solo il frutto della nostra immaginazione. Ma la nostra identità personale, così complessa specie se rapportata ai fenomeni legati alla sfera emotiva e nello specifico quella affettiva, ha un legame comunque collaterale con gli usi e le consuetudini sociali? una persona che fa uso di stupefacenti, alterando il suo sé psichico, in che modo gestirà emozioni e sensazioni nei confronti dell’altro da sé? Gli stati di alterazione psichica indotti da sostanze chimiche rimbalzano da individuo a individuo e il diffuso uso specie di droghe porta solo a effimeri risultati in cui stati di onnipotenza e superamento di ogni difficoltà si alternano a stai depressivi e stati comportamentali patologici. Non si ama più! alterare chimicamente Il sé psichico rende gli individui incapaci di amare e si finisce per simulare condivisione artata di buoni sentimenti diffusi in ogni dove, finalizzati solo al vano e inutile tentativo di manipolazione dell’altro nella speranza di rendere invisibile il proprio stato di grave disagio e comunque trarre vantaggio dal rapporto interpersonale. Una nuova e diversa realtà viene proposta a seguito della diffusione trasversale delle droghe in tutte le fasce sociali, ma questo è solo un approccio deterministico strettamente connesso alla diffusione di sostanze psicoattive, atte ad attenuare il dolore di una presunta inadeguatezza alla gestione delle interrelazioni sociali, in un contesto ove la fatica del vivere si frappone all’ossessione di dover apparire in antitesi alla certa consapevolezza di non essere adeguati. Allora in questo caso non è l’alterazione chimica che determina lo stato della realtà percepita, ma è il deficit psicologico, dalla necessità di attenuare degli effetti inconsci degli archetipi, i modelli primordiali impressi nella matrice cerebrale, direttamente legati ai comportamenti di specie ed in particolare nella relazione uomo-donna, con una palese asimmetria tra il ruolo femminile del modello “cacciatore-raccoglitore” e quello maschile, oggi depauperato a seguito del deficit di mezzi di comunicazione simbolicamente generalizzati che l’individuo maschio non può più ostentare rispetto all’alter femmina che paradossalmente riesce ancora ad esprimere il ruolo suo decisionale circa la scelta nel rapporto di coppia Tutta la struttura sociale viene lesa da questa commistione di situazioni devianti che a livello sociale comportano una sindrome lesiva delle relazioni tra individui, tra individui e sovrastrutture sociali e tra le sovrastrutture stesse. E’ questa la rappresentazione che descrive la mortale anomia sociale. A questo punto è necessario riportare il discorso su un piano più umano, meno vivisezionante nei vari aspetti positivi e negativi biologici e chimici e comportamentali. Parlo dell’agire umano rapportato alla complessità degli stati emotivi individuali. Utilizzerò quindi uno strumento alquanto singolare per gestire questa transizione, uno strumento semplice ma efficace per i suoi alti contenuti simbolici e cioè una favola, la favola del “Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry. Vi siete mai chiesti quante volte avete detto al compagno o alla compagna “Ti voglio bene”? E quante volte avete usato la frase “Io ti amo”? “Ti voglio bene” e “Io ti amo” sono due affermazioni equivalenti? Una implica l’altra? Rappresentano due elementi complementari o alternativi di una stessa condizione emotiva? O sono affermazioni solo legate ai diversi stadi del ciclo dell’amore prima descritto? E qui ci aiuta a capire la favola……. “Ti amo”, disse il Piccolo Principe. “Anche io ti voglio bene” rispose la rosa. “Ma non è la stessa cosa” rispose lui. “Voler bene significa prendere possesso di qualcosa, di  qualcuno. Significa cercare negli altri ciò che riempie le aspettative personali di affetto, di compagnia. Voler bene significa rendere nostro ciò che non ci appartiene, desiderare qualcosa per completarci, perché sentiamo che ci manca qualcosa.” E in queste parole è rappresentata la distanza abissale tra il sentimento del voler bene e la condizione privilegiata di poter esprimere amore. Voler bene istaura un rapporto di aspettative bidirezionali, si ripongono nell’altro aspettative e risposte che servono a soddisfare unicamente nostri bisogni e necessità Si tratta di “impossessarsi dell’altro”, riversando e cercando un egoistico riflesso mediato della propria immagine interiore, delle aspettative personali di affetto, di vicinanza, di compagnia ed anche di condivisione. Tutto quanto l’agire è finalizzato a rendere nostro, specie a livello interiore, ciò che non ci appartiene e voler quindi appagare il nostro desiderio di completamento desiderando qualcosa sempre desiderato e che ci manca e che vedi riflesso nell’altro e tu vuoi e pertanto devi appropriartene. Voler bene diventa quindi uno stato in cui “attaccarsi ad una persona” viene attuato in funzione dei propri bisogni e nell’impulso di soddisfacimento delle nostre necessità. A causa della singolarità autoreferenziale che contraddistingue ogni individuo, difficilmente le condizioni di soddisfacimento reciproco nella condizione del “volersi bene”, costituiscono un modello stabile per cui esiste la probabilità che il rapporto di coppia diventi asimmetrico e quindi se le aspettative riposte nell’altro non sono ricambiate in maniera soddisfacente, paradossalmente ci sentiamo delusi ed inadeguati. Amare è un rarissimo stato di grazia che dona la capacità di vedere il mondo con gli occhi dell’altro, desiderare il meglio per l’altro anche se le motivazioni dell’agire sono all’opposto. Amare è permettere all’altro di essere felice, anche quando le condizioni di vita conducono a percorsi diversi. E’ un sentimento disinteressato che nasce dalla propensione a donarsi nei confronti della persona amata, pertanto l’amore non può essere fonte di sofferenza così come avviene nella condizione di voler bene ad un altro. L’assenza di dolore nell’amore è determinata dal fatto che non ci si aspetta nulla in cambio, il sentimento esiste per il sublime e puro piacere di donare la propria interiorità assoluta all’altro. Questa profonda condizione dell’essere parte però dal fatto che si può amare solo chi conosciamo profondamente perché amare significa affidare all’altro da sé la propria vita e la propria anima in modo assolutamente disinteressato. La conoscenza dell’altro diventa un elemento fondamentale, poiché il “salto nel buio” determinato dalla meravigliosa condizione di provare amore, non prevede condizioni di restituzione e risarcimento di ciò che ha un valore assoluto e cioè l’anima ceduta. La conoscenza dell’altro significa sapere delle sue gioie e dei suoi dolori, degli stati di euforia e di sconforto, dei suoi successi e delle cadute che hanno scandito la vita dell’altro, accettando uno stato di “sintonia mentale” che va oltre il bene e il male, oltre il tempo e lo spazio, in un universo fatto di gioia e felicità riflessa negli occhi dell’altro. Ma esiste un vincolo, non possiamo amare chi non conosciamo, perché l’amore è eterno ed unico e questo stato prescinde inspiegabilmente da qualunque azione neuro-chimica, costituendo uno stato comportamentale complesso e attribuibile solo a chi riesce ad avere la fortuna di avere qualcuno da amare. Nella società anomica la condizione di “volersi bene” diventa particolarmente difficile, gli assetti socioeconomici, il lavoro, l’instabilità della famiglia determinano alterazioni di questo rapporto bidirezionale, dopo poco tempo si rimane ambedue delusi nel rapporto di coppia. Finita la passione neuro-chimica si sconfina nelle aride secche delle opportunità e dei mancati traguardi, della delusione delle aspettative e su larga scala il rapporto di coppia subisce delle modificazioni del suo iter evolutivo andando ad intaccare le influenze moderatrici delle consuetudini definite dal set delle dotazioni culturali connesse al rapporto di coppia nelle specifiche realtà microeticniche. La società globalizzata incide su l’eterogeneità degli stati emotivi del singolo individuo che è fortemente influenzata dagli indirizzi e dai modelli di “labeling” sociale imposti dai mass-media. Si privilegia la capacità di ostentare solo l’apparenza, mentre si cerca di annullare l’interiorità, l’intelligenza e la fantasia Social network e format televisivi, concorrono a condizionare il processo di definizione della propria identità, personale ed anche sessuale specie quando si è indotti a confrontarsi con un effimero quanto vuoto modello comportamentale che ha ragione di esistere solo ed esclusivamente sui palcoscenici televisivi e nelle campagne pubblicitarie. Concludo affermando che è ormai nulla la capacità di amare degli individui mentre è di difficile realizzazione anche lo stato del “volersi bene”, per cui la solitudine pervade gli uomini che non riescono più a rapportarsi adeguatamente sia sul piano sia emotivo che su quello razionale e quindi il dolore derivante da una percezione di realtà distorta, che non ci piace, trova sfogo solo ed esclusivamente in varie forme di dislocazione emotiva. Prima di giungere allo stato patologico della dissonanza cognitiva si tenta in extremis un recupero di umanità e di rapporto affettivo con qualcosa che si muove, che vive e che risponde ai nostri richiami. un qualcosa che possiamo conformare egoisticamente alle nostre abitudini e che nel contempo non ci può contraddire né creare problemi: quindi compriamo un cane! Rimando alla prossima puntata in cui analizzeremo gli effetti sociali ed individuali delle tecniche di controllo sociale.


ing. dott. prof. Ambrogio Giordano

Pro-Rettore Accademia Ortodossa Nicodemo l'Aghiorita

Ambrogio Giordano, Presidente Nazionale della Fraternità Ortodossa e membro della Curia e del Consiglio Nazionale Ecclesiastico della Chiesa Ortodossa Italiana è nato a Foggia il 5/9/1961. Attualmente ricopre la carica di Dirigente Tecnico presso AMIU Puglia Spa. È laureato in Ingegneria Civile ed Ambientale, Sociologia indirizzo mass media e comunicazione, Pianificazione Territoriale Urbanistica e Ambientale ed ha anche conseguito un Master universitario di II Livello in Scienze Criminologiche. Da anni si occupa di problemi inerenti l’ambiente, modelli matematici e temi sociali collegati al mondo del lavoro ed ai fenomeni di devianza sociale, collaborando con numerose Organizzazioni, Enti ed Associazioni con finalità sociali e culturali. Attualmente è presidente del comitato tecnico scientifico dell’Associazione Rinascita e Rose. Ha collaborato alla stesura di numerosi testi organizzando e presiedendo convegni inerenti tematiche legate alla filosofia, alla logica matematica e tematiche socio-economiche. Tra i suoi interessi la filosofia, la logica e le scienze sociali. Molti dei suoi scritti sono rintracciabili su numerosi blog e sui social network.

venerdì 13 novembre 2020

Ha senso nel mondo moderno la riscoperta della spiritualità d'oriente?

Ha senso nel mondo moderno la riscoperta della spiritualità d'oriente?



Il cammino d'interiorizzazione seguito dai monaci può apparire alla nostra coscienza moderna, affannata nel compimento di azioni esteriori, inutile o per lo meno rinunciatario di ciò che chiamiamo, con termine solenne, gli impegni storici. Se, con uno sforzo notevole di mente, cerchiamo di immaginare il giudizio che un monaco potrebbe dire della nostra affannosa ricerca dell'azione, esso potrebbe esser formulato così: "agli uomini moderni, religiosi o no, cercano di ricoprire con lo stordimento del fare e del discorrere - discorrere è perseguire un sentiero che porta alla distruzione - il proprio interiore vuoto”. L'inversione delle energie dall'esteriorità verso l'interiorità, conduce ad una rottura del livello ordinario di coscienza. Le realtà esteriori non appaiono più - come oggetto di opposizioni o di conquista, ma stimolatrici di un rapporto inconsueto d'amore-comunione. Il pensiero umano ha tre differenti connotazioni: "la connotazione angelica che è la scoperta del significato spirituale delle creature; quella umana che è la considerazione oggettiva e spassionata delle creature; infine quella demoniaca che non cerca la conoscenza ma il possesso delle creature “. (Evagrio).

dott. prof. mons. Maximus
Vice Rettore Accademia Ortodossa San Nicodemo L'Aghiorita

giovedì 12 novembre 2020

ESICASMO: Meditazione e preghiera contemplativa

 ESICASMO:

Meditazione e preghiera contemplativa



Oltre l' apatia e la ataraxia. Dopo il periodo nel quale impervesava la cultura new-age, e dove vari "maestri" proponevano percorsi di perfezione legati alla tradizione buddista o orientale, non è stato valutata appieno la tradizione monastica Ortodossa. Nella tradizione monastica Ortodossa , cerchiamo di capire il grande valore dell'esicasmo. Si parla di una meditazione e di una "preghiera del cuore" La Preghiera del cuore, radicata nel Nuovo Testamento, viene assunta da una «corrente» propria della spiritualità orientale antica che è stata chiamata esicasmo. Il nome proviene dal greco hesychìa che significa: calma, pace, tranquillità, assenza di preoccupazione. L'esicasmo può essere definito come un sistema spirituale di orientamento essenzialmente contemplativo che ricerca la perfezione (deificazione) dell'uomo nella unione con Dio tramite la preghiera incessante. Tuttavia ciò che caratterizza tale movimento è sicuramente l'affermazione della eccellenza o della necessità della stessa hesychia, della quiete, per raggiungere la pace con Dio. In un documento del monastero di Iviron del monte Athos, si legge questa definizione: «L'esicasta è colui che solo parla a Dio solo e lo prega senza posa». Gli esicasti, inserendosi nella tradizione biblica, esprimeranno l'esperienza della preghiera. contemplativa attraverso l'invocazione e l'attenzione del cuore al Nome di Gesù, per camminare alla sua presenza, essere liberati da ogni peccato e rimanere nel dolce riposo di Dio in ascolto della sua parola silenziosa. La storia dell'esicasmo inizia con i monaci del deserto d'Egitto e di Gaza. «A noi, piccoli e deboli, non ci resta altro da fare che rifugiarci nel Nome di Gesù», dice uno di loro. Si afferma poi al monastero del Sinai, con san Giovanni Climaco. Un esponente di spicco è sicuramente Simeone il Nuovo Teologo. Rinascerà al Monte Athos nel sec. XIV. Quiete, solitudine e silenzio interiore, che viene raggiunta attraverso la solitudine e il silenzio esteriore, si presenta tuttavia come un mezzo eccellente per raggiungere l'orazione ininterrotta. il fine dell'unione con Dio nella contemplazione, attraverso la preghiera . In quanto mezzo e non fine l'esichia va distinta sia dalla apàtheià degli Stoici, intesa come assenza e liberazione dalle quattro passioni fondamentali, la tristezza, il timore, il desiderio e il piacere; sia dall'ataraxia degli Epicurei,che consiste nella libertà dell'anima dalle preoccupazioni della vita.


Padre Roberto Pinna 

missione san Efisio - Cagliari

giovedì 30 luglio 2020

Gesù e i suoi fratelli

Gesù e i suoi Fratelli

C'è un'interregativo che molti padri della chiesa, studiosi e fedeli si sono posti fin dai primordi della cristianità, un interrogativo che riguarda la famiglia di Gesù e se questi avesse, oppure no, dei fratelli. Come è noto Giuseppe era il marito di Maria e Gesù era, per la Legge, il suo legittimo figlio, ma molti ignorano che Giuseppe aveva altri figli, i quali erano, pertanto fratelli (o fratellastri) di Gesù. Dell'esistenza di detti fratelli vi sia traccia anche nei Vangeli "canonici" (cioè accettati come "regola dottrinale" dalle varie Chiese Cristiane) quali Marco (6.3,4) e Matteo (13.55.56) dove è scritto: "Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioseto, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non sono qui fra noi?". Tale frase, apparentemente chiara, è stata confutata dalla Chiesa Cattolicama anche da Chiese che sono nate da scismi della stessa come quella Evangelica Luterana e quella Anglicana, dove si è sempre cercato di negare quanto scritto nei vangeli, evidentemente al fine di non mettere in dubbio la verginità perpetua di Maria, e il termine fratelli è stato interpretato come cugini, se non genericamente come parenti. Queste opinioni date come dogma di Fede ben le conosco, avendo frequentato la Chiesa Cattolica per anni sia come chierichetto, confratello della Misericordia, dirigente della locale Opera dei Ritiri di Perseveranza e studente dai Fratelli Maristi, ma in me è stato sempre forte il desiderio di conoscere e di sapere oltre le circonferenze dei canoni prestabiliti. Ed è questa curiosità innata che ha fatto sì che mi domandassi perché l'Ortodossia, che pure si richiama alla Retta Fede ed alla fede della cristianità indivisa del primo millennio, mostrasse aperture diverse tanto che se si ammirano i mosaici della Chiesa di San Salvatore in Chora, a Costantinopoli si nota chiaramente la presenza dei fratelli di GesùAnche per dei Padri della Chiesa primitiva quali San Clemente e San Cirillo di AlessandriaOrigene, Sant'Eusebio di CesareaSan Gregorio di Nissa,Epifanio, ed altri ancora, diversi dei quali considerati Santi anche dalla Chiesa di Roma, hanno sostenuto che Giuseppe, prima di sposare la Vergine Maria era un vedovo con dei figli avuti da un precedente matrimonio. Quale è dunque la verità? Nella Storia di Giuseppe il Falegname (SGF)uno scritto apocrifo dei primi secoli pervenutoci in un dialetto copto del basso Egitto denominato boarico troviamo scritto: "C'era un uomo chiamato Giuseppe, che era di Betlemme, la città dei Giudei, che è la città di Re David. Egli era ben istruito nella saggezza e nell'arte della falegnameria. Quest'uomo, Giuseppe, si unì con un santo matrimonio ad una donna che gli diede figli e figlie: quattro maschi e due femmine; e i loro nomi erano: Giuda e Joseto, Giacomo e Simeone, e i nomi delle figlie erano: Lisia e Lidia. Morì la moglie di Giuseppe, come è decretato per tutti gli uomini, e lasciò Giacomo ancora in tenera età. Giuseppe era un Giusto, che glorificava Dio in tutte le sue opere: Era solito andare fuori del paese ed esercitare il suo mestiere di falegname, egli insieme a due sui figli, poiché viveva del lavoro delle sue mani, secondo la legge di Mosè." Queste parole, secondo detto scritto apocrifo, che non significa erroneo ma contenente dottrine nascoste (dal greco apochryphos segreto)sono state raccontate ai discepoli direttamente da Gesù. Secondo il proto-vangelo di Giacomo (8.3) e la Storia di Giuseppe il Falegname, mentre Giuseppe era in vedovanza e la Vergine Maria aveva 12 anni, i sacerdoti del Tempio convocarono dodici vedovi della tribù di Giuda discendenti di Re David al fine di trovare "un uomo di bontà per prometterla a lui sposa finché venga il tempo del matrimonio" (SGF 3.2). La sorte cadde sopra "il buon vecchio Giuseppe, mio padre secondo la carne" come, secondo l'autore della Storia di Giuseppe Il Falegname lo definì Gesù (SGF IV.2). Per il Vangelo dello pseudo Matteo Giuseppe non voleva prendere Maria tanto che disse: "Io sono vecchio e ho figli; perché dunque consegnate a me questa bambina? ... Io non disprezzo la volontà di Dio; ma sarò custode di Maria fino a che si potrà conoscere quale è la volontà di Dio a questo riguardo: cioè quale dei miei figli potrà averla in moglie." (VpM VIII.4) a significare che almeno i figli maggiori di Giuseppe: Giuda e Joseto, avevano un'età maggiore di Maria. Anche per il ProtoVangelo di Giacomo (per gli storici scritto in periodo analogo se non prima di alcuni Vangeli canonici) quando Giuseppe fu prescelto (Pv.G IX.1) "si schernì, dicendo: - Ho già figli, e sono vecchio, mentre esse è una fanciulla! Che io non abbia a diventare oggetto di scherno per i figli di Israele!" (Pv.G IX.2), ma poi accettò quando e prese con se Maria "in casa sua. Ella vi trovò il piccolo Giacomo nella tristezza di orfano e si diede a vezzeggiarlo. E' per questo motivo che fu chiamata Maria madre di Giacomo" (SGF IV.4). Della presenza dei fratelli e sorelle di Gesù vi sono altresì varie informazioni nei vangeli canonici. In Giovanni (2: 11-12), vediamo che dopo il miracolo di Cana, Gesù si reca a Cafarnao, insieme a sua Madre, i suoi fratelli e i suoi discepoli. Gli evangelisti Marco (3.31-34), Matteo (12.46-50) e Luca (8.19-21) ci narrano dell'episodio di Gesù che "mentre egli parlava ancora alle folle" venne cercato da sua madre e dai suoi fratelli: «Ecco, tua madre e i tuoi fratelli sono là fuori e cercano per parlarti»Anche l'evangelista Giovanni, che ne parla in occasione della festa dei tabernacoli (7.3-10) ci racconta (2.12) infatti che: "egli discese a Capernaum con sua madre, i suoi fratelli e i suoi discepoli; ed essi rimasero lì pochi giorni." a significare che non soltanto la madre, ma anche i fratelli di Gesù, ne condividevano l'opera di evangelizzazione. A parte Giacomo il Giusto, che per motivi di sangue ed espressa volontà di Gesù fu il primo capo della cristianità (e non Simon Pietro come erroneamente sostiene la Chiesa Cattolica), le notizie dei fratelli e delle sorelle di Gesù sono assai scarni. Si sa soltanto che dopo l'esilio egiziano, quando Giuseppe ritornò in Galilea nella città di Nazareth i figli maggiori Joseto e Simone, nonché le figlie Lisia e Lidia si erano sposati e vivevano a casa loro (SGF11.1) mentre il fratellastro più piccolo Giacomo rimase in casa con Gesù, Giuseppe e Maria. Non si parla di Giuda, ma probabilmente era il fratello più grande e si era sposato prima della nascita di Gesù. Di Joseto ci parlano il Vangelo Armeno dell'infanzia di Gesù (VIII.1 e 7) che ci racconta che fu portato da Giuseppe a Betlemme per il censimento ed era presente alla nascita di Gesù. Di Lisia, che fu chiamata, insieme agli altri fratelli, al capezzale di Giuseppe moribondo da Gesù (SGF XX.5,6). Ma soprattutto dei fratelli di Gesù si parla dopo la morte e la risurrezione di Nostro Signore. Ne parla l'evangelista Giovanni (20,17-18) riferendosi a Gesù che, dopo la risurrezione, disse a Maria Maddalena «Non toccarmi, perché non sono ancora salito al Padre mio; ma va' dai miei fratelli e di' loro che io salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro» e soprattutto negli Atti degli Apostoli quando si narra come "Tutti costoro perseveravano con una sola mente." (1.14). Dopo la morte di Gesù divenne preminente determinare chi fosse il capo della comunità cristiana e la scelta cadde su Giacomo il Giusto, fratello di Gesù - al quale Gesù apparve, dopo la Resurrezione, prima degli Apostoli (1 Corinti 15:7) -  che fu il primo vescovo di Gerusalemme e di tutta la cristianità. A Giacomo venivano riferiti i fatti salienti della nascente comunità cristiana (Atti 12.17), ne parla San Paolo di Tarso (Atti 21,18) "Il giorno seguente Paolo si recò con noi da Giacomo, e tutti gli anziani erano presenti." ed era quello che prendeva la parola definitiva (Atti 15,13) "Quando essi tacquero, Giacomo prese la parola e disse: «Fratelli, ascoltatemi." Da San Paolo sappiamo che come capo della cristianità primitiva diresse il Concilio di Gerusalemme, Galati (1,19): "E non vidi alcun altro degli apostoli, se non Giacomo, il fratello del Signore." dove si desise che Pietro era l'Apostolio dei circoncisi (ebrei) e Paolo e Barnaba dei gentili (pagani). In detto Concilio (il primo della Cristianità), sempre San Paolo di Tarso nella lettera ai Corinzi (1 9,5) ricorda come gli apostoli chiedesssero di portare nell'opera di evangelizzazione anche la relativa "moglie, che sia una sorella in fede, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore". Di Giacomo il Giusto, fratello di Gesù ne parla anche Flavio Giuseppe, uno storico ebreo naturalizzato romano del I secolo, che nel libro Antichità giudaiche (XX.cap.9) parlando delle persecuzioni che i primi cristiani subivano per mano delle autorità giudaiche scrive: "Anano [...] convocò i giudici del Sinedrio e introdusse davanti a loro un uomo di nome Giacomo, fratello di Gesù, che era soprannominato Cristo, e certi altri, con l'accusa di avere trasgredito la Legge, e li consegnò perché fossero lapidati". Che Giacomo il Giusto fosse il successore di Gesù a capo della nascente religione cristiana ce ne parla non soltanto Gerolamo, che nel De Viriribus Illustribus (2) – parla di un episodio tratto dal Vangelo secondo gli Ebrei dove si racconta che dopo la resurrezione Gesù apparve a Giacomo e ... "Prese il pane, lo benedisse,lo spezzò, ne diede a Giacomo il Giusto, e gli disse: - Fratello mio, mangia il tuo pane, perché il Figlio dell'uomo è risorto dai dormienti" ma espressamente anche il Vangelo di Tommaso (13), un vangelo che da un secolo a questa parte ha sempre maggiori estimatori, comil Papa Emerito Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), che ci racconta che quando "I discepoli dissero a Gesù: - Sappiamo che ci lascerai: chi è che ci guiderà? - Gesù rispose loro: - Dovunque andrete seguirte Giacomo il Giusto...". Per quanto gli argomenti esposti possono sembrare strani, se non blasfemi, in quanto vanno a cozzare con secoli di propaganda o disinformazione cattolica che ha inculcato nel comune sentire verità diverse, pur tuttavia è bene avere conoscenza anche delle altre verità alternative fin qui negate. Mi auguro che questo articolo, che non vuol essere un dogma di Fede ma unicamente una fonte di riflessione e conoscenza, non sia stato noioso ma, al contrario abbia suscitato in voi della curiosità che potrete approfondire leggendo trattati più eruditi ed esaustivi del mio. 
San Giacomo il Giusto, fratello del Signore
Concludo rammentando come anche nei primi cristiani vigeva quella mentalità, tipicamente semita, per la quale la guida di una comunità religiosa fosse affidata ai parenti del fondatore (vedi la plurisecolare diatriba che divide l'Islam tra sunniti e sciiti, questi ultimi sostenitori della successione parentale del Califfato ad Ali nipote e genero di Maometto, in quanto ne aveva sposato la figlia Fatima) e perché la scelta di guidare la prima comunità cristiana sia caduta su Giacomo il Giusto fratello di Gesù e che a succedergli sia stato chiamato il cugino Giuseppe, figlio di Cleofa, fratello di Giuseppe. D'altra parte, come ci raccontano lo scrittore romano Sesto Giulio Africano ed altri autori paleocristiani ancora nel terzo secolo erano tenuti in posizione di speciale prestigio i desposini o appartenenti alla famiglia del Signore (parenti).

dott. prof. mons. Filippo Ortenzi
Arcivescovo Metropolita della Chiesa Ortodossa Italiana e Magnifico Rettore dell'Università Ortodossa San Giovanni Crisostomo

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